domenica 30 dicembre 2007

Domenica tra l’Ottava di Natale

Renato Guttuso, Fuga in Egitto (1983, acrilico su carta intelata)


Matteo 2,13-23: [13]Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo». [14]Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, [15]dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Dall'Egitto ho chiamato il mio figlio”. ([16]Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s'infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi. [17]Allora si adempì quel che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: “[18]Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più”.) [19]Morto Erode, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto [20]e gli disse: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e và nel paese d'Israele; perché sono morti coloro che insidiavano la vita del bambino». [21]Egli, alzatosi, prese con sé il bambino e sua madre, ed entrò nel paese d'Israele. [22]Avendo però saputo che era re della Giudea Archelào al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nelle regioni della Galilea [23]e, appena giunto, andò ad abitare in una città chiamata Nazaret, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: «Sarà chiamato Nazareno».


Cari amici e care amiche,

Con domenica prossima ci troviamo ancora nell’Ottava di Natale (Domenica tra l’Ottava di Natale, 30 dicembre 2007). Il Vangelo ci riporta ad un episodio famoso e che molto ha colpito la nostra fantasia: la fuga di Gesù in Egitto e la conseguente strage degli innocenti (Matteo 2,13-23).
Quando Matteo decide di scrivere il 'suo' Vangelo, intuisce che sarebbe stato impossibile evidenziare l’identità divina di Gesù di Nazaret, senza cercare di descriverNe le radici ebraiche. In questo modo Gesù riassume, sin dall’infanzia, l'intera storia del popolo nel quale è stato generato. In modo particolare, attraverso l’esperienza della fuga in Egitto, è come se Gesù venisse messo nella condizione di rivive quella dura esperienza d'esilio che già aveva sperimentato il Suo popolo, compiendo pure Lui quanto era già stato scritto dagli antichi profeti.
Per questo Matteo è preoccupato di documentare attentamente i primi episodi dell'infanzia di Gesù, con una serie di citazioni profetiche, affermando così che l’episodio al quale stiamo assistendo, avviene "perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 'Dall'Egitto ho chiamato mio figlio'". Anzi, al termine del brano, si noterà che, stando proprio alle indicazioni degli 'antichi profeti', Gesù "sarà chiamato Nazareno". Quella storia di amore e di liberazione che Dio aveva iniziato, legandosi proprio al popolo ebraico, trova così compimento in Gesù, che a causa di un pericoloso despota sarà costretto ad abitare a Nazaret.

Sorgono tuttavia alcune domande: liberazione da che cosa? E perché liberi proprio attraverso Gesù di Nazaret? In che senso Gesù ci libera, ci salva, così come il popolo di Israele è stato liberato e salvato? Una delle questioni più serie dal punto di vista religioso del cristianesimo occidentale odierno è questa: da cosa ci deve e ci può liberare propriamente Gesù di Nazaret? Per quale ragione dar credito alla liberazione, all'opera di liberazione e di amore di Gesù di Nazaret nella mia vita? Cosa mi ritorna dall'averLo incontrato? Perché non riferirsi anche ad altri progetti di liberazione più accattivanti?
La questione non sta solo nell'accogliere o no un religioso della tradizione occidentale cristiana alla quale apparteniamo. E' stato già detto che giustamente "non possiamo non dirci cristiani" per certi aspetti (B. Croce). Oggi è più urgente cercare di riformulare le ragioni della speranza che i credenti in Occidente dicono – stando almeno a certe loro parole - di avere in Gesù di Nazaret. Senza questa operazione di riformulazione della speranza cristiana che ci deriva da Lui, confineremmo Gesù a stare in alcuni buoni sentimenti; in affermazioni sempre più deboli e persino semplicistiche.

C'è una espressione che ritorna ben quattro volte nel brano evangelico. Anzitutto l'angelo del Signore, apparendo in sogno a Giuseppe dice: "Alzati, prendi con te il bambino e sua madre…", inviandolo prima in Egitto e in seguito facendolo ritornare nel 'paese di Israele'. E' la volta poi di Giuseppe che "Destatosi prese con sé il bambino e sua madre" per fuggire prima in Egitto e per tornare dopo un po' di tempo nel paese di Israele.
Come dunque riesprimere le ragioni della nostra speranza in Gesù di Nazaret? Ci dice appunto il Vangelo oggi: obbedendo all'Angelo che invita anche noi ad accogliere "il bambino e sua madre". E se è confortante guardare all'obbedienza pronta di Giuseppe, poi è importante saper scavare a fondo sulla modalità nella quale si esprime la custodia di Giuseppe nei confronti di Gesù. La sua singolare paternità. Giuseppe per un verso si fa carico di Gesù, ma insieme anche di una donna che certo non ha concepito un figlio che proviene da lui. Gesù e Sua madre sono tutt'uno per Giuseppe.
Se prima delle nostre ragioni a riguardo della ‘custodia’ di Gesù c'è una obbedienza confidente e profonda, che ci può raggiungere nel cuore soltanto se siamo in giusto ascolto di Dio, come Giuseppe, riuscire ad agire come lui significa farsi carico ancora della totalità piena e complessiva del mistero di Dio che così si è rivelato in Gesù.

Come si esprime dunque la fede di Giuseppe, la sua santità? Non abbiamo a che fare con un credente nel senso specificamente cristiano del termine. Il vangelo del resto neppure ci testimonia che Giuseppe sia stato presente nella vita pubblica di Gesù, ai Suoi miracoli e alla Sua predicazione, fino a restare, come Maria, davanti alla Sua morte e risurrezione pasquale. E, dunque, che santità è mai quella di Giuseppe? Matteo ce la descrive attraverso l'esperienza del sogno. Qualcosa di molto simile alla stella che già aveva guidato i Magi a Betlemme: "I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse" e "Morto Erode, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe".
Il sogno, le stelle sono linguaggi diversi dall’esperienza della parola, della verbalizzazione. Se la parola ha una discorsività di carattere razionale, nell'intenzione primaria di voler spiegare, il sogno e le stelle alludono a qualcosa di più evocativo. A questo livello si comprende prorpiamente la figura di Giuseppe, che è “giusto”, e che, stando anche ai vangeli, non pronuncia una parola, una domanda, come Maria. A questo livello pre-verbale va dunque compresa la santità di Giuseppe che proprio così ha incontrato Gesù, come il Figlio di Dio. Se i sogni di Giuseppe, come la stella dei Magi, ci introducono ad un linguaggio, ad una espressione della fede che non coincide con la verbalizzazione propria dei Vangeli, tuttavia ci testimoniano che anche così si accede alla verità di Gesù. Stabilendo con Lui un contatto reale. Come un padre impara a tenere tra le braccia quel figlio che proprio la sua donna gli ha generato.

E un particolare non deve sfuggire: il fatto che Giuseppe fa seguire all'esperienza del sogno, un’ azione che, propria del suo popolo nell’esperienza dell’Esodo, diventerà piena di senso e di valore salvifico con la Pasqua di Gesù: quella di destarsi e di alzarsi. Proprio come in piedi restano, vegliando, gli ebrei la notte di Pasqua, prima di incamminarsi verso la Terra promessa; così come sta ritto Gesù risorto, dopo essere passato attraverso la dura esperienza del sonno della morte.
La figura di Giuseppe non è davvero secondaria nella meditazione della primitiva comunità cristiana che è preoccupata di comprendere in pienezza il mistero di Gesù di Nazaret. La sua concreta obbedienza testimonia non solo una reale assunzione del mistero degli inizi di Gesù, ma già una vera e propria anticipazione e adesione al mistero Pasquale della Sua morte e risurrezione. Anche il suo stesso silenzio è significativo. Una vera e propria introduzione al pieno dispiegarsi della Parola di Dio, in Gesù suo Figlio.

Un anno va a concludersi è un altro già appare all’orizzonte. Non manchi la serenità di continuare a sperare in Colui che ci ha raggiunti per restare con noi, per sempre. Il Signore faccia splendere su ciascuno di voi il Suo volto e vi doni ancora la Sua pace.
Che sia ancora per tutti una buona domenica.

martedì 25 dicembre 2007

Natale del Signore


Giotto, Il presepe di Greccio (Storie di San Francesco nella Basilica superiore di Assisi)


Luca 2,1-14: [1]In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. [2]Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. [3]Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. [4]Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, [5]per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. [6]Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. [7]Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo. [8]C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. [9]Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, [10]ma l'angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: [11]oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. [12]Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». [13]E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: [14]«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama».
Cari amici e care amiche,

In riferimento alla celebrazione del Natale del Signore è bene affermare subito che la salvezza non è un’idea astratta, fuori dello spazio e del tempo, ma documentata da fatti precisi e databili. Per questo Luca sceglie di riferirsi al primo censimento che Cesare Augusto estende a tutti i territori del dominio romano, conferendo ad essi una solida struttura economico-politica. In questo modo i sudditi venivano contati per riscuotere le tasse e per poterne poi disporre per la guerra.
Siamo, dunque, davanti a una superba esaltazione del potere dell’uomo sull’uomo. Questo censimento è addirittura il primo di tutto l’universo: “In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città.” Un atto che comportava una vera e propria iscrizione o registrazione.
Il Messia tanto atteso entra e nasce in questa storia impastata di sopraffazione e di male portando non la logica del potere, ma del servizio, non della guerra e dell’occupazione violenta, ma della pace. Proprio in questo senso il kairòs – il tempo propizio – della salvezza, è anche quello più inopportuno e improbabile secondo la logica umana. Dio, dunque, è sovranamente libero di servirsi di tutto con grande fantasia, per mostrare la Sua fedeltà e il Suo amore per l’uomo, per ogni uomo.

Giuseppe e Maria obbediscono così alle leggi del potere e delle imposizioni degli uomini. Ma proprio nell’obbedienza ai capricci di Cesare Augusto si compie il disegno d’amore più bello che la fantasia di Dio sia mai riuscita a concepire: “Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta”.
In che termini questa obbedienza potrebbe essere richiesta nel piano di salvezza? Fin dove? E’ un problema che ha occupato la riflessione della Chiesa sin dal suo inizio e trova una linea di soluzione anzitutto nel comportamento libero di Gesù che non Si è schierato né con gli zeloti rivoluzionari che avrebbero voluto abbattere il potere romano, né con i collaborazionisti. La Sua è stata una scelta di solidarietà con l’uomo, rimanendo dalla parte dei più deboli e dei più poveri.
Anche il cristiano vive in questo mondo e obbedisce alle sue leggi con libertà, chiedendo che in quella obbedienza non venga contraddetto lo Spirito autentico di Gesù. Solo in questo caso, infatti, si porrebbe la necessità del martirio, perché, come affermavano Pietro e Giovanni ai loro giudici: “Giudicate voi se è giusto, davanti a Dio, ubbidire a voi anziché a Dio” (Atti 4,19). Del resto, anche Gesù, “Benché fosse Figlio, imparò l’ubbidienza dalle cose che soffrì” (Ebrei 5,8).

Partendo da Nazaret, in obbedienza all’editto imperiale, “mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto”. Proprio “in quel luogo” si realizza la promessa del Signore. Il compiersi dei “giorni del parto” inizia la realizzazione della presenza di Dio con gli uomini. Inizia un tempo che tende alla pienezza: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15). Per questo, dalla croce che compie il Suo sacrificio, Gesù dirà: “Tutto è compiuto” (Gv19,30).
Pertanto, è questo il fatto che sta al centro del mondo, non il primo grande censimento della storia. Che il Creatore Si doni così alla Sua creatura diventa il punto centrale di lettura del tempo, che si trova ad essere diviso davvero in un prima e in un dopo. Se solo prima di questa nascita il fine dell’uomo era quello di riuscire a raggiungere Dio andando verso di Lui, dopo la nascita di Gesù è Dio stesso che ci raggiunge, dando compimento al Suo fine, al Suo scopo.
Ecco che Maria “Diede alla luce il suo figlio primogenito”. Il figlio di Dio, che ora è anche figlio dell’uomo, è chiamato ormai “primogenito” a pieno diritto. Primogenito di tutte le creature (Col 1,15) e “primogenito fra molti fratelli” (Rm 8,29). Già nel II secolo, del resto, è documentata la tradizione della Sua nascita in una grotta, come in una grotta verrà deposto il Suo corpo dopo la crocifissione (Gv 19,41). Dall’umiltà della terra della nascita all’umiltà della terra della Sua morte.

Inizia così l’estasi, la grande contemplazione di Maria: “lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo”. Così che anche noi, guardando a Maria, possiamo entrare in questa esperienza addirittura tattile dell’Emmanuele, cioè di Dio con noi. La conoscenza attraverso il tatto comporta infatti una fusione di profumo e di gusto. La stessa che si verificherà nella deposizione dalla croce e nel dono eucaristico del Suo corpo dato a noi nella cena.
Anche gli stessi gesti di Maria sono ad un tempo nobili e semplici: “lo avvolse in fasce”. Dio è così affidato pienamente, senza riserve, alle mani di una donna che lo accudisce fasciandoLo con tenerezza estrema. Ma poi “lo depose in una mangiatoia”, sdraiandoLo proprio nel luogo dove normalmente viene messo ciò che poi sarà mangiato dagli animali ricoverati nella grotta. Lui, “il pane vivente che è disceso dal cielo” (Gv 5,51), è deposto nel luogo dove si nutrono le bestie.
E questa è la ragione profonda: “non c’era posto per loro nell’albergo (katàlima)”. Lo stesso termine usato nell’ultima cena, quando Gesù darà se stesso in cibo ai Suoi: “e direte al padrone di casa: il Maestro ti dice: ‘dov’è la stanza (katàlima) in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?’” (Lc 22,11). E’ inevitabile cogliere, da questi dettagli, il carattere passionale della nascita di Gesù. In questo senso, infatti, Luca col suo vangelo è i grande iconografo di Gesù.

Inizia così una seconda sezione del brano proposto dalla liturgia odierna: “C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge”. Sappiamo che i pastori appartengono a una categoria sociale infima. La stessa classe sociale dei poveri delle beatitudini, ai quali appartiene di diritto il Regno dei cieli (Mt 5,3). In questo senso, dunque, questi pastori sono introdotti per primi a riconoscere che proprio quel piccolo bambino è il Figlio di Dio.
Per questo “Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l'angelo disse loro: ‘Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore’”. Ci sono gli stessi tratti dell’annuncio a Maria: spavento, invito a non temere, l’annuncio dell’inizio con oggi dell’e-vangelo, cioè un annuncio pieno di gioia.
Il segno è ormai inequivocabile: “troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”. Questo bambino è, infatti, il segno della salvezza. Dio, in Gesù, è ormai Colui del quale non si può pensare nulla di più piccolo, perchè “il più piccolo tra voi, questi è il più grande” (Lc 9,48). In questo senso “subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste che lodava Dio e diceva: ‘Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama’”.

domenica 23 dicembre 2007

Divina Maternità della Beata Vergine Maria - Sesta Domenica dell’Avvento Ambrosiano

La Madonna del Parto, Piero della Francesca (Monterchi)

Luca 1,26-38: [26]Nel sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, [27]a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. [28]Entrando da lei, disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». [29]A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. [30]L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. [31]Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. [32]Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre [33]e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».[34]Allora Maria disse all'angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo». [35]Le rispose l'angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. [36]Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: [37]nulla è impossibile a Dio». [38]Allora Maria disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». E l'angelo partì da lei.


Cari amici e care amiche,

domenica prossima, 22 dicembre 2008, celebreremo, secondo il rito Ambrosiano, la Divina Maternità della beata vergine Maria. Proviamo in occasione di questa liturgia così natalizia a guardare alla Parola di Dio a tutto campo.

Nella prima lettura (2 Samuele 7,1-5.8-12.14-16), infatti, ci sono come due personaggi che si cercano, come presi ambedue da un profondo affetto: il re Davide e il Signore, suo Dio. Davide, dopo aver vagato da una tenda all’altra durante le guerre che aveva sostenuto, ora si lascia prendere dal desiderio di una casa più stabile e sicura. Ma mentre lui ha l’opportunità di abitare in una casa di cedro, l’arca del Signore si trova ancora sotto una tenda. Per questo Davide chiama il profeta Natan per considerare cosa è possibile fare per dare al Signore una dimora più dignitosa.
Ma a questo punto entra in azione il Signore: “Forse tu mi costruirai una casa perché io vi abiti?”. Lui non ama stare in una casa troppo rigida e stabile perché la Sua casa è anzitutto là dove sono gli uomini. Con il loro andare e venire. Con le instabilità e le incertezze, anche abitative, che spesso li caratterizzano. Il Signore ricorda a Davide che S’era innamorato del Suo popolo quando era ancora una piccola tribù di nomadi. Ma se ora Davide desidera abitare in una casa più stabile, allora non sarà Davide a costruirGli una casa, ma piuttosto: “una casa farà a te il Signore”.

Certo, il desiderio di Davide è molto nobile, ma il sogno di Dio è più grande. Del resto, non c’è religione che non abbia cercato di collocare Dio: nel cuore delle cose (tutto è pieno di dei dicevano gli antichi), sulla cima di un monte, dentro le mura di un tempio o di una chiesa. Ma ormai sta avvenendo un passaggio che solo Dio poteva inventare. A Dio, infatti, non basta più abitare ‘accanto’ a noi, con noi. Vuole piuttosto abitare ‘dentro’ di noi. Siamo cioè davanti al mistero non solo della vicinanza di Dio all’uomo, ma dell’incarnazione o dell’inabitazione di Dio nell’uomo.
Già la vicenda di Dio, che si lega così intimamente al popolo di Israele, fa intuire la misura del Suo affetto per gli uomini che trova concretizzazione in un popolo. Ma adesso un’arca non basta più. Non basta la vicinanza affettiva. Nel cuore di Dio è scattato il desiderio di realizzare con gli uomini un vero e proprio congiungimento sponsale, capace di generare al mondo Suo Figlio.
Come se Dio stesso, da grande innamorato, si lasciasse attraversare da questa domanda: cosa posso fare di meglio per l’umanità intera? Per questo, rischiando da vero innamorato, decide, guardando a Maria, di avviare la Sua più grande strategia, purchè l’amore si compia anche in noi per sempre. A Natale, prima d’essere davanti alla disponibilità singolare di Maria, ci è chiesto di sostare davanti a un Dio, semplicemente innamorato di lei.

Questo ci testimonia l’inizio del brano evangelico (Luca, 1,26-38): “Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria”. In Maria si raccoglie, dunque, tutta la passione d’amore che Dio ha per ogni uomo. In Maria Dio stesso Si raccoglie, consegnandoSi soltanto per amore all’intera umanità.
Ma è chiaro che Dio non sceglie Maria in modo strumentale, perché poi avrebbe potuto diventare la madre di Suo Figlio. Il Suo è, piuttosto, un vero e proprio gratuito atto d’amore. Sceglie, cioè, Maria semplicemente perché è proprio lei, Maria.
Ma come attuare un piano di questo genere? Diremmo, con un linguaggio tipicamente nostro: come scrivendole una bella lettera, inviandole un Suo messaggero. In questo modo tutte le notazioni personali, di luogo e di circostanza, sembrano gli elementi necessari di un indirizzo che anche l’“Angelo Gabriele” deve seguire con precisione: “in una città della Galilea, chiamata Nazaret, ad una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria”.

Che Dio Si innamori di una donna come Maria potrebbe destare qualche reazione nelle nostre riflessioni un po’ moraleggianti. Persino, forse, qualche gelosia nascosta. Di fatto, la sequenza propria dell’incarnazione di Dio tra gli uomini segue, con grande coerenza, l’itinerario col quale un uomo, dopo essersi accostato con amore a una donna, desidera per lei e con lei il dono di un figlio. Per questo, proprio nella carne di Maria, Gesù, il Figlio di Dio, prende carne d’uomo.
Il valore inestimabile dell’agire di Maria nel progetto di incarnazione di Dio tra gli uomini è testimoniato dall’evangelista Luca, che annota con precisione anche la sua prima reazione al saluto dell’angelo: “A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto”. Questo suo turbamento giustifica ulteriormente l’esperienza di innamoramento che caratterizza l’incontro tra Dio e Maria. Come un’autentica esperienza affettiva, senza retorica.

Gabriele, accorgendosi del suo stato d’animo, si premura di dirle: “Non temere, Maria”, spiegandole con maggior precisione i termini della situazione: “Perché hai trovato grazia presso Dio”. E’, infatti, solo frutto di grazia quanto sta accadendo, amore gratuito, pura presenza: “il Signore è con te”. Poi, le traduce questa singolare vicinanza di Dio col fatto umano più bello che mai possa capitare a una donna: “Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù”. Per questo, dunque, al turbamento e all’annuncio, segue anche una domanda accorata, propria di chi volendo cominciare a capire, tuttavia già si affida: “Allora Maria disse all'angelo: ‘Come è possibile? Non conosco uomo’”. Anche l’intelligenza, nello stupore della grazia, chiede di poter partecipare di una gioia così grande.
Maria non è intimorita, ma consapevole del fatto che Dio l’ha definitivamente coinvolta. In lei sta prendendo corpo il più grande sogno di Dio. Più che ragionare di Dio, Maria sta ormai dialogando con Lui. SentendoSi madre già sta parlando con quel Figlio che Dio stesso le ha regalato.
La domanda diretta di Maria ci introduce, piuttosto, a un nuovo modo di rapportarsi a Dio e di pensarLo. Se lei è la nuova arca della alleanza tra Dio e gli uomini, come Dio stesso può prendere corpo dentro l’amore di uomo e di una donna?

La risposta dell’angelo è, a un tempo, singolarmente divina e profonamente umana: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio”. Così Maria s’è lasciata definitivamente possedere da Dio: proprio nei termini nei quali Dio l’ha voluta possedere, realizzandola come donna col dono di una divina maternità. Per questo, non c’è alcun motivo per opporre resistenza: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”.
La ricomprensione di Dio che Maria inaugura, precorre già l’adesione piena di suo Figlio Gesù alla volontà del Padre Suo: quando, dall’alto della croce, griderà il senso ultimo della Sua stessa esistenza: “Tutto è compiuto” (Gv 19,30). La Divina Maternità di Maria introduce tutti noi a stare già nell’obbedienza d’amore del Figlio.

Cari amici e care amiche, la celebrazione liturgica del Natale di Gesù è alle porte. Sia dunque pace nei vostri cuori. Sia luce di speranza nei vostri occhi. Questo è l’ augurio per ciascuno di voi.

domenica 16 dicembre 2007

V Domenica di Avvento (rito Ambrosiano)

Duccio di Boninsegna – Giovanni il Battista (Maestà – Siena)

Matteo 11,2-11: [2]Giovanni intanto, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: [3]«Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?». [4]Gesù rispose: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: [5]I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, [6]e beato colui che non si scandalizza di me». [7]Mentre questi se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? [8]Che cosa dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re! [9]E allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta. [10]Egli è colui, del quale sta scritto: Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te. [11]In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

Cari amici e care amiche,

celebriamo domenica prossima (16 dicembre 2007) la V domenica di Avvento. Dopo una prima lettura del brano evangelico proposto (Mt 2,1-11), viene spontaneo notare che anche i grandi profeti hanno le loro domande e, addirittura, possono andare in crisi.
Giovanni Battista, dopo che Gesù ha avviato la Sua predicazione, è stato incarcerato e in prigione ha sentito parlare dei successi di Gesù: “Giovanni intanto, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo”. Se è vero che Gesù fa miracoli, incanta le folle e convince anche i Suoi discepoli, in cosa potrebbe consistere propriamente la Sua liberante messianicità, se proprio lui, il Battista, che l’aveva preannunciato, ora si trova ad essere prigioniero?
La radice profonda delle sue domande sta forse nel fatto che proprio l’Evangelo di Gesù non sembra coincidere con alcune sue precise attese messianiche e con l’interpretazione che lui stesso cerca di dare di alcune grandi profezie. Per questo “mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: ‘Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?’”.

Si esprime nella sua domanda l’atteggiamento intelligente di chi non si accontenta delle apparenze delle cose, desiderando andare oltre. Ma il dato biblico più profondo è che la domanda nei confronti di Colui che sta per venire, accompagna sempre tutti coloro che L’hanno atteso con sincerità di cuore. Maria, Sua madre, non aveva esitato a interrogare l’angelo Gabriele che le annunciava proprio la nascita divina di Gesù: “Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?” (Lc 1,34). Gesù stesso ha un forte senso del domandare al Padre Suo, quando, trovandoSi nello strazio di un dolore mortale, griderà: “Mio Dio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Anzi, sono state persino contate 180 domande poste a Gesù in tutti i Vangeli.
Eppure Gesù non ama dare risposte dirette: preferisce rispondere ponendo a Sua volta un’altra domanda che, tenendo conto di quanto Gli è richiesto, intende ampliare la questione posta, per giungere a una risposta certamente più profonda e più vera. Conducendo così i Suoi interlocutori per strade non scontate. Spesso nuove e, comunque, mai scontate. Inventando con i Suoi interlocutori una forma di dialogo che ha sempre la pretesa di raggiungerli nel cuore, senza mai attardarsi in sottigliezze retoriche. In questo modo Dio, in Gesù Suo Figlio che Si è messo totalmente dalla nostra parte, ha assunto anche le nostre domande. Giungendo a risposte uniche, vere e definitive. Non interlocutorie. Sino al dono della Sua vita per amore nostro.

A Giovanni Battista, dunque, Gesù risponde senza indugiare. RiferendoSi a qualcosa che per i Suoi interlocutori è semplicemente evidente: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete”. Ma cosa vedono propriamente i discepoli? Il fatto che “i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella”. Nell’arco delle cinque situazioni descritte, Dio stesso ha continuato a dimostrarci tutta la Sua benevolenza e la Sua infinita misericordia.
Ma è chiaro che non basta semplicemente udire o vedere. Proprio a questo primo livello – quello della prima constatazione – è decisivo mettere in atto come due fondamentali atteggiamenti: quello dell’attenzione e quello, ancora più decisivo, della interpretazione.
Già l’attenzione chiede un esercizio, uno sforzo non indifferente. Anche per noi. Il rischio della distrazione è in agguato, in una società che spesso fa dell’evasione una sorta di bisogno strutturale, quasi necessario, pur di sostenere i ritmi complessi dell’esistenza contemporanea. Rendersi conto che ancora oggi si dà nel cuore di molte persone il miracolo della bontà, della bellezza interiore, del gusto della verità, della possibilità della giustizia, dell’opportunità della coerenza, non è affatto scontato e chiede facilmente a tutti un esercizio di attenzione continuo e paziente.
Più delicato però rimane piuttosto l’atteggiamento conseguente della interpretazione di questo stato ‘miracoloso’ della realtà. Si tratta, infatti, non solo di vedere, ma di guardare. Non solo di udire, ma di ascoltare. Sapendo, cioè, scavare e interpretare il reale con uno stupore che continuamente si esercita ad andare nella prospettiva di un senso compiuto. Nella direzione di un significato pieno che, solo se attraversati dal dono della fede, è in grado di attingere alla realtà stessa di Gesù, Figlio di Dio.

Qui l’intelligenza di qualsiasi discepolo deve ancora sostare, restando continuamente nell’ascolto obbediente di Lui. Nell’obbedienza (ob-audire) propria di chi, affidandosi, accetta d’entrare nel Suo stesso orizzonte, in sintonia col Suo stesso cuore. Chi ama, infatti, vede soprattutto con gli occhi del cuore (Pascal). In questo senso scaturisce la necessità dell’annuncio. Tornando, cioè, da Giovanni per riferire anche a lui la verità di Colui che pure loro ormai hanno potuto incontrare: “Andate e riferite”.
In questo senso, Gesù giunge a formulare persino una beatitudine: “e beato colui che non si scandalizza di me”. Non scandalizzarsi di Lui significa, infatti, accettarLo per quello che è. E in Lui, a partire da Lui, giungere ad accettare persino la propria complessa condizione. Fosse anche quella di prigioniero. Costretto e incatenato. Proprio come un’occasione, uno spazio, una dimensione stessa della grazia.
Credere a Gesù significa, infatti, saper stare ‘oggettivamente’ dalla Sua parte, accettando il primato – e la ragionevolezza – della Sua parola e della Sua stessa azione. Come annuncio reale di grazia e spazio singolare di misericordia e di salvezza. Ci si potrebbe scandalizzare di Lui, invece, quando ci si dovesse lasciar abitare dal sospetto che, stare semplicemente dalla Sua parte comporti d’essere definiti perdenti. Mentre, invece, è solo amando come Lui ci ha amati (e ci ha insegnato) che siamo vincenti. Ma resta comunque decisivo perserverare, senza scandalizzarci di Lui.

Questo spiega dunque l’elogio finale che Gesù fa di Giovanni: “Mentre questi se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: ‘Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Che cosa dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re! E allora, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta. Egli è colui, del quale sta scritto: Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te”.
La santità, la grande profezia di Giovanni Battista, è tale in quanto è passata attraverso il domandare e il ricercare proprio della fede.
Prima d’essere un profeta, prima d’essere un parente o un Suo contemporaneo, Giovanni Battista ha imparato l’esercizio fondamentale della fede nel Messia, Gesù di Nazareth, che lui stesso aveva preannunciato stando sulle rive del Giordano. Stabilendo un sincero e profondo affidamento nei Suoi confronti. Diventando anche per noi figura decisiva per interpretare il nostro avvento, la nostra stessa attesa di Lui.

Del resto, l’eucaristia domenicale alla quale ci è dato la grazia di partecipare ne fa continua memoria. Il ricordo vivo e reale della morte e della risurrezione di Gesù raccoglie in un solo abbraccio anche la morte di tutti coloro che, nei modi più diversi e spesso cruenti e umanamente incomprensibili, Lo hanno testimoniato. A partire anche da Giovanni Battista.
Anche lui ci aiuta a ripetere ancora, con fiducia e senza stancarci: “annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”.

Che sia, dunque, una buona domenica per tutti

domenica 9 dicembre 2007

IV Domenica di Avvento (rito Ambrosiano)

Giovanni Battista, icona


Matteo 3,1-12: [1]In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, [2]dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». [3]Egli è colui che fu annunziato dal profeta Isaia quando disse: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! [4]Giovanni portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano locuste e miele selvatico. [5]Allora accorrevano a lui da Gerusalemme, da tutta la Giudea e dalla zona adiacente il Giordano; [6]e, confessando i loro peccati, si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano. [7]Vedendo però molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all'ira imminente? [8]Fate dunque frutti degni di conversione, [9]e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. [10]Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. [11]Io vi battezzo con acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco. [12]Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile».


Cari amici e care amiche,

Sabato prossimo, 8 dicembre ricorre la Solennità dell’Immacolata Concezione e con la domenica seguente – 9 dicembre 2007 – giungiamo alla IV Domenica d’Avvento. Stando alla Parola di Gesù, anche noi oggi – proprio come avveniva ai tempi di Noè, quando “mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito” (Mt 24,37-39) – potremmo non accorgerci della portata dei grandi eventi, anche calamitosi, che ancora affaticano i nostri giorni. Per questo la liturgia di domenica prossima punta su una figura di forte impatto come quella di Giovanni Battista (3,1-12): “in quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea”.

Matteo preferisce andare subito alla sostanza della sua predicazione: “‘Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!’. Egli è colui che fu annunziato dal profeta Isaia quando disse: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!”. L’intera profezia di Giovanni è tutta racchiusa in un’esortazione, “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino”. Espressione non dissimile nella sostanza da quanto anche Gesù affermerà, prendendo le mosse però dalla Galilea: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: ravvedetevi e credete al vangelo” (Mc 1,15); e ancora: “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17).
Per quanto la Sua profezia sia protesa a un futuro imminente, nulla è casuale e imprevedibile. L’orizzonte fortemente ebraico di Matteo colloca anche Giovanni Battista nel solco della grande profezia del passato: “Egli è colui che fu annunziato dal profeta Isaia”. Ma anche Isaia aveva intravisto in Giovanni non tanto il portatore di un preciso messaggio messianico, ma proprio la voce, la tromba altisonante, di Lui: “Voce di uno che grida nel deserto”. In questa prospettiva, anche le sue parole, dal tono così prettamente etico, ascetico ed esortativo – “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!” – diventano essenziali all’annuncio stesso dell’evangelo del Salvatore.

Anche dal punto di vista dell’immagine, Giovanni Battista esprime come un senso di rottura singolare e unica, già in atto: “Giovanni portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi”. Addirittura in apparente contrasto con le vesti e la tunica fluente di Gesù Maestro (Gv 19,23). Come pure “suo cibo erano locuste e miele selvatico”. Tanto che poi verrà “il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: ‘Ecco un mangione e un beone, un amico dei pubblicani e dei peccatori’. Ma la sapienza è stata giustificata dalle sue opere” (Mt 11,19). Così, introdotti da Giovanni Battista a guardare con profonda sapienza all’azione del Figlio dell’uomo, potremo meglio comprendere la verità profonda del Suo stesso farSi cibo per noi (Gv 4,34).

Davanti a un testimone così essenziale e fustigatore colpisce piuttosto il fatto di una adesione così vasta e unanime: “allora accorrevano a lui da Gerusalemme, da tutta la Giudea e dalla zona adiacente il Giordano”. Questo ci potrebbe introdurre a meglio comprendere che il bisogno di conversione e di revisione della propria esistenza appartiene alla struttura intima dell’umanità stessa. Non c’è espressione religiosa significativa che non faccia riferimento a questa tensione purificatrice e penitenziale, così che “confessando i loro peccati, si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano”.
Ma non basta certo questo unanime riconoscimento. Il rischio che possa addirittura essere asservito a qualche subdola convenienza da parte del potere non manca mai in qualsiasi fenomeno di massa. In questo senso Giovanni Battista è molto attento. Al punto che: “vedendo però molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: ‘Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente?’”. Sta già iniziando il contenzioso che tanto affaticherà Gesù.

Resta comunque che una conversione autentica nei confronti di Colui che viene è tale se accompagnata da alcuni frutti: “Fate dunque frutti degni di conversione, e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco”. Ma cosa significa produrre “frutti buoni”, se poi per Gesù si tratta anzitutto di qualità della pianta, perché “un albero buono non può fare frutti cattivi; né un albero cattivo far frutti buoni” (Mt 7,18)? Si tratta dunque di saper distinguere, come dirà anche Paolo, tra le opere della carne (Gal 5,17) e il frutto dello Spirito (Gal 5,22).
Non è un passaggio semplice. Si tratta, infatti, di lasciarsi raggiungere dallo stesso Spirito di Gesù per intuire evangelicamente la differenza tra le opere morali della carne e il frutto che solo dal Suo Spirito può scaturire. C’è anche a questo riguardo un salto di qualità che dice la differenza tra la morale e la fede cristiana, tra le azioni messe in atto dall’uomo e il dono spirituale che davvero può cambiare il volto della terra: “Tu mandi il tuo Spirito e sono creati, e tu rinnovi la faccia della terra” (sl 104,30).

Si tratta ormai di comprendere in modo più esplicito quanto proprio Giovanni sta già dicendo, mettendo a confronto il suo battesimo e quello di Gesù: “Io vi battezzo con acqua per la conversione, ma colui che viene dopo di me è più potente di me e io non son degno neanche di portargli i sandali”. Infatti, “egli vi battezzerà in Spirito santo e fuoco”.
E’ lo Spirito di Gesù, dunque, che è decisivo in questa svolta dalla profezia alla piena rivelazione di Dio, che si attua in Gesù. Si potrebbe persino affermare che è propriamente questo Spirito che decide definitivamente la qualità dell’annuncio di Gesù rispetto a quello di Giovanni Battista. Ormai prendendo atto di una netta differenza. La stessa che passa tra la voce e la Parola, “affinché il comandamento della legge fosse adempiuto in noi, che camminiamo non secondo la carne, ma secondo lo Spirito” (Rm 8,4).

E la Sua venuta, cioè proprio questa differenza qualitativa, è imminente. Tanto che “Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile”.
Imminente sembra essere ormai il Natale, in termini paradossali già introdotto da qualche tempo dal gioco della domanda e dell’offerta tipicamente commerciale. Imminente è, e resta comunque, l’eucaristia che ogni domenica ci ritroviamo a celebrare, nell’attesa gioiosa della Sua venuta.

Buona domenica a tutti.

domenica 2 dicembre 2007

III Domenica - Avvento Ambrosiano – Anno A

“Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. [38]Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell'arca, [39]e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell'uomo”.


Matteo 24,37-44: [37]Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. [38]Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell'arca, [39]e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell'uomo. [40]Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l'altro lasciato. [41]Due donne macineranno alla mola: una sarà presa e l'altra lasciata. [42]Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. [43]Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. [44]Perciò anche voi state pronti, perché nell'ora che non immaginate, il Figlio dell'uomo verrà.


Cari amici e care amiche,

domenica prossima celebreremo la Terza domenica dell’Avvento ambrosiano (2 dicembre 2007), mentre il brano di Matteo (24,37-44) ci regala tre immagini, ritmate da un ritornello che sta diventando abituale in questo Avvento che abbiamo iniziato: “il Signore vostro verrà”.
Gesù, anzitutto, rifacendoSi ai tempi di Noè, contesta il nostro modo di assolutizzare la vita presente (carpe diem), a scapito di una autentica attesa di Lui (vv. 37-39); la seconda immagine evidenzia, invece, il giudizio netto e severo che comporta sempre la Sua venuta (vv. 40-41); la terza scena, infine, descrive l’imprevedibilità della Sua visita definitiva (vv. 43-44). Giungendo ad esortarci così: “Vegliate dunque perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà”.

Commento appropriato a questa pericope evangelica è di fatto la seconda lettura della liturgia di domenica prossima, ripresa dalla Lettera di Paolo ai Romani (13,11-14). “Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri”.

Dunque, davanti alla prospettiva del Signore che sta per venire, “è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti.”. Più che al sonno fisico qui si allude a una specie di stordimento, di annebbiamento dello spirito e della coscienza, nella quale tutti possono cadere, mentre il Vangelo afferma che ai tempi di Noè tutti “mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito”. E’ pur vero che per sé non è una colpa compiere delle azioni che di fatto ci permettono di vivere decentemente e in pace. Ma la questione è che l’uomo rischia ancora oggi di vivere ‘ad una dimensione’ (Marcuse). La tentazione di vivere ‘solo’ nel presente, mangiando, bevendo e accoppiandosi, è uno stordimento che insidia l’umanità. Al massimo, il futuro viene inteso come un prolungamento, un clone del presente. Dove poter, al limite, continuare a calcolare, ipotizzando qualche strategia possibile: “fino a quando Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo”.

Ma se le cose stanno così, cosa dobbiamo fare? Stando all’indicazione evangelica, l’invito è a entrare con Noè nell’arca: “fino a quando Noè entrò nell’arca”. Mentre Paolo, consapevole del fatto che “la notte è avanzata, il giorno è vicino”, ci esorterebbe, dicendo: “Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie”.
Entrare nell’arca con Noè, entrare cioè nella nuova dimensione della salvezza che ci viene prospettata da Colui che viene e che certamente verrà non è affatto scontato. Da più parti e con sempre maggiore urgenza si invoca sempre più insistentemente la necessità di riferirsi a un’etica dei valori e dei comportamenti in grado di comprendere, di afferrare globalmente il senso della vita, della giustizia, della verità e della libertà. Questo profondo bisogno di tornare e di attenersi a dei valori più chiari e trasparenti è già una prospettiva che ci permette “di indossare le armi della luce”, alle quali anche Paolo allude. Tuttavia, la ricerca e la stessa individuazione di alcuni valori fondamentali ai quali riferirsi pare sia giunta a una fase critica. Avvolta da un profondo e pericoloso relativismo.

In questo senso è davvero giunto il tempo per ‘vegliare’: “Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà”. C’è davvero un non sapere, quasi strutturale, che ci attraversa e solo una veglia accorta e continuamente esercitata ci permette di affrancarci da una sorte negativa e inesorabile.
La via di uscita da questa impasse, di carattere etico, ma pure strutturale e alla quale non ci si può sottrarre – “Allora due uomini saranno nel campo: uno sarà preso e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una sarà presa e l’altra lasciata” – ce la indica ancora Paolo quando ci esorta con chiarezza e determinazione: “Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri”. Si veglia non solo per rimanere guardinghi e sospettosi, come in continua autodifesa, o esercitandosi nella prospettiva di valori moralmente luminosi e convincenti, ma per lasciarci avvolgere, rivestire totalmente e pienamente dal “Signore Gesù Cristo”.
Spesso nella nostra ricerca di valori alti – quando parliamo di pace, di verità, di giustizia o di libertà – sembra mancare la consapevolezza della loro più profonda radice. Di quell’orizzonte solido che li principia davvero e li sostiene comunque. Capace cioè di contenere e custodire ancora tutte le nostre aspirazioni morali più grandi. Insomma: non si indossano le armi della luce senza rivestirci del Signore Gesù Cristo. Perché solo in Lui ogni cosa trova origine, convergenza e declinazione possbile.

Proprio per questo, dunque, Lui ci viene ancora incontro. Come nell’Eucaristia che, di domenica in domenica, ci ritroviamo a celebrare: “Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”.
Nella speranza – vorrei dire a Suo nome: nella certezza – che anche tutti voi, amici e amiche che leggete queste mie parole, vi sentiate comunque confortati e sostenuti nell’invocarLo e nell’attenderLo ancora. Buona domenica ancora.