giovedì 31 maggio 2007

Santissima Trinità – 3 giugno 2007

Andrej Rublev - La Santissima Trinità (XV sec).

Giovanni 16,12-15: [12]Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. [13]Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. [14]Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l'annunzierà. [15]Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l'annunzierà.

Cari amici e care amiche,

domenica prossima (3 giugno 2007) ricorre la Solennità della Santissima Trinità. Celebrando l’unità e la Trinità singolare di Dio, nel Suo massimo dispiegamento, è comprensibile percepire un profondo senso di inadeguatezza e di stupore. Un po’ come Mosè, davanti al roveto ardente sull’Oreb, quando, da “una fiamma di fuoco in mezzo al roveto si sentì dire: “‘Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe’. Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio” (Es 3, 1-6). Si ammutolisce come davanti a un grande mistero.

In questo senso si potrebbero descrivere i rischi di cattiva (‘negativa’) teologia del Dio dei cristiani, per riuscire ad affermare poi i tratti di una teologia ‘positiva’ del Dio di Gesù Cristo. Infatti, il nostro Dio non è certo qualcosa di raggomitolato che poi diventa Qualcuno, srotolandoSi lungo la storia degli uomini, con il susseguirsi delle loro culture e delle diverse espressioni religiose. Già nel Medioevo qualcuno aveva immaginato Dio disteso lungo tre diverse fasi del tempo degli uomini: l’epoca del Padre o dell’Antico Testamento, quella cristiana di Suo Figlio Gesù e,infine, l’epoca dello Spirito santo (l’eresia di Gioacchino da Fiore condannata dal Concilio Lateranense IV nel 1215).
E, in epoca più recente, anche la filosofia ha cercato di rileggere Dio come fosse un’idea, che dapprima sta tutta racchiusa “in sé”, poi esce “fuori di sé”, dispiegandosi nella natura delle cose del mondo e, infine si compie “In sé e per sé”, realizzandosi nel mondo fatto dagli uomini (Hegel).
E si potrebbe continuare ad elencare tentativi, più o meno accattivanti, messi in atto dalla nostra intelligenza per riuscire a dire, dal nostro punto di vista, chi è Dio.

Ma in Chi credono i cristiani? Nessuna scienza – dalla matematica alla logica, dalla storia alla fenomenologia delle religioni – sarà mai in grado di venirci seriamente in aiuto. Perché noi crediamo, cioè diamo credito e fiducia, anzitutto a quanto Gesù ci ha detto di Dio. Del Suo Dio, anzitutto. Del Suo stesso essere Dio. Solo Gesù ci ha raccontato Dio. Come dice anche l’inizio del Vangelo di Giovanni: “Dio nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito ce lo ha raccontato” (Gv 1,18). E’ come se ce ne avesse fatto l’esegesi. SpiegandoceLo, cioè: rivelandoceLo!
In questo senso, la questione di Dio, per i discepoli di Gesù, non si pone a livello descrittivo o verbale. Come se noi ci dovessimo affidare anzitutto a qualche definizione che Gesù ci ha lasciato scritta a riguardo del Padre o dello Spirito Santo. Noi non abbiamo alcuno scritto di Gesù né alcuna definizione da Lui espressa. Lui ci ha ‘spiegato’ Dio, come ‘Uno e Trino’, vivendo in prima persona una relazione singolare con il Padre Suo nello Spirito Santo. Anzi, attraversato da un amore irresistibile, ha desiderato che anche per ciascuno dei Suoi discepoli (e, dunque, anche per ciascuno di noi) si ripetesse la stessa esperienza d’amore: “Io sono venuto ad accendere un fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso” (Lc 12,49).

In questa prospettiva possiamo meglio rileggere anche il brano evangelico che sarà proclamato domenica prossima: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà” (Gv 16,12-15).
Se l’azione più grande del Padre è il dono fatto a noi di Suo Figlio (“Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna”, Gv 3,16), lo Spirito Santo, per esplicito desiderio Suo, Lo ripete e lo ripeterà sempre lungo la storia della Chiesa che ha il compito, semplicemente, di annunciarLo al Mondo, guidandoci così a ridire questa “verità tutta intera”. E il sapore della verità piena di Dio si realizza là dove l’amore secondo il cuore amante di Dio continua ad essere espresso e realizzato. Infatti: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l’amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui” (Gv 14,23).

Del resto, noi abbiamo già la grazia inestimabile di sperimentare sacramentalmente l’amore di Dio perché di domenica in domenica ci ritroviamo ad ascoltare e a celebrare (ripetere) la Sua Parola. E “dove due o tre sono riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20).
“A te la nostra lode, o Trinità dolcissima e beata, che sempre sgorghi e sempre rifluisci nel quieto mare del tuo stesso amore” (inno liturgico).

don Walter Magni

giovedì 24 maggio 2007

Domenica di Pentecoste - 27 maggio 2007

“Vieni, Santo Spirito”


Giovanni 20,19-23: [19]La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». [20]Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. [21]Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi». [22]Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; [23]a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».

Atti 2,1-11: [1]Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. [2]Venne all'improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. [3]Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; [4]ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d'esprimersi. [5]Si trovavano allora in Gerusalemme Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo. [6]Venuto quel fragore, la folla si radunò e rimase sbigottita perché ciascuno li sentiva parlare la propria lingua. [7]Erano stupefatti e fuori di sé per lo stupore dicevano: «Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? [8]E com'è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? [9]Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell'Asia, [10]della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di Roma, [11]Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio». [12]Tutti erano stupiti e perplessi, chiedendosi l'un l'altro: «Che significa questo?». [13]Altri invece li deridevano e dicevano: «Si sono ubriacati di mosto».

1 Corinzi 12,3-7.12-13: [3]Ebbene, io vi dichiaro: come nessuno che parli sotto l'azione dello Spirito di Dio può dire «Gesù è anàtema», così nessuno può dire «Gesù è Signore» se non sotto l'azione dello Spirito Santo. [4]Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; [5]vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; [6]vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. [7]E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune: [8]a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; [9]a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell'unico Spirito; [10]a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l'interpretazione delle lingue. [11]Ma tutte queste cose è l'unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole. [12]Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. [13]E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito.


Cari amici e care amiche,

se l’Ascensione, con l’immagine di Gesù che sale al cielo, descriveva l’intima comunione d’amore tra Gesù e il Padre, che scaturisce dalla Sua stessa Pasqua (“io e il Padre siamo uno”, Gv 10,30), domenica prossima (27 maggio 2007), solennità di Pentecoste, l’accento celebrativo cadrà di conseguenza sull’effusione di questo amore sulla Chiesa, perché si diffonda presto nel mondo.

Le immagini della Parola della liturgia sono diverse. Il Vangelo di Giovanni (20,19-23), collocando l’effusione dello Spirito al termine del giorno di Pasqua (“la sera di quello stesso giorno”, Gv 20,19) descrive l’effusione e la diffusione dello Spirito Santo come voluta espressamente da Gesù: “disse loro di nuovo: ‘Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi’. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: ‘Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi’” (Gv 19,21-23); Luca, che invece colloca l’episodio al termine della sequenza cronologica del cinquantesimo giorno (Pentecoste)[1], dice: “Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue come lo Spirito dava loro il potere d’esprimersi” (At 2,1-4).

Chi è, dunque, lo Spirito Santo che Gesù dona al termine della Sua Pasqua? Come rappresentare la Sua persona, il Suo essere proprio? Delle tre Persone divine lo Spirito è il più misterioso, anche per i molti linguaggi teologici che hanno cercato di descriverLo. Del Padre, infatti, conosciamo i lineamenti descritti da Gesù, le cui caratteristiche possono essere avvicinate alla figura umana della ‘paternità’. Il Figlio poi, incarnandoSi, è diventato ‘uomo’, come noi. Ma dello Spirito Santo, invece, non si dà una rappresentazione adeguata. Possiamo, tuttavia, intravederne il mistero attraverso i simboli o le immagini proposte dalla Scrittura e dalla Tradizione della Chiesa: il vento e il soffio; la colomba e il fuoco; l’olio dell’unzione e l’acqua; il Paraclito; il dono.
Ma se poi volessimo andare alla radice di queste immagini e di questi simboli, allora, anche da un punto di vista linguistico, è bene fare un salto qualitativo, immergendoci in un clima più contemplativo, fatto di grande meraviglia e stupore. Giungendo così ad affermare, pieni di ammirazione, che lo Spirito Santo è semplicemente ‘Amore’. Risuona così quanto già S. Agostino aveva affermato nel ‘De Trinitate’: se il Padre è ‘eterno Amante’, il Figlio l’‘eternamente Amato’, lo Spirito Santo altro non è che ‘Amore’. Un amore che è “per sempre”, caratterizzato dell’indissolubilità stessa dell’amore del Padre e del Figlio.

Amore incontenibile che Si effonde e Si diffonde. Effuso sulla realtà dei discepoli di Gesù risorto, riuniti come Chiesa, può così diffonderSi per il mondo intero. Lungo la storia degli uomini. In questo senso, anzitutto, Paolo parla proprio del ‘frutto’ dello Spirito: “Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo” (Gal 5,22); e la tradizione della Chiesa ha proposto continuamente il tema dei doni dello Spirito Santo. Proprio in questo senso la liturgia della parola di Pentecoste, riferisce questo passo: “Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune” (1Cor 12,4-7).

Cosa può significare, dunque, partecipare all’Eucaristia di Gesù nel giorno solenne di Pentecoste? Permettere che lo Spirito Santo innesti nella nostra esistenza di discepoli il frutto già maturo della Pasqua di Gesù. Per questo è fondamentale invocare lo Spirito dal Padre, ad esempio con le stesse parole della preghiera eucaristica III: “ti preghiamo umilmente: manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo, perchè diventino il corpo e il sangue di Gesú Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato di celebrare questi misteri”. Imparando poi a invocarLo direttamente: “Spirito che aleggi sulle acque, calma in noi le dissonanze, i flutti inquieti, il rumore delle parole, i turbini di vanità, e fa’ sorgere nel silenzio la Parola che ci ricrea. Spirito che in un sospiro sussurri al nostro spirito il Nome del Padre, vieni a radunare tutti i nostri desideri, falli crescere in fascio di luce che sia risposta alla tua luce, la Parola del Giorno nuovo. Spirito di Dio, linfa d’amore dell’albero immenso su cui ci innesti, che tutti i nostri fratelli ci appaiano come un dono nel grande Corpo in cui matura la Parola di comunione”.[2]
I molti disordini caotici che abitano la nostra esistenza siano così riordinati dalla presenza affettuosa e amorevole dello Spirito Santo.


don Walter Magni


giovedì 17 maggio 2007

Ascensione del Signore - 20 maggio 2007

Giotto, Acensione (Padova, Cappella degli Scrovegni)


Luca 24,46-53: [46]«Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno [47]e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. [48]Di questo voi siete testimoni. [49]E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto». [50]Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. [51]Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. [52]Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; [53]e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

Atti 1,1-11: [1]Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio [2]fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo. [3]Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. [4]Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre «quella, disse, che voi avete udito da me: [5]Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni». [6]Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: «Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?». [7]Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, [8]ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra». [9]Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. [10]E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se n'andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: [11]«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo».

Efesini 1,17-23: [17] il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. [18]Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi [19]e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l'efficacia della sua forza [20]che egli manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, [21]al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro. [22]Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, [23]la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose.


Cari amici e care amiche,

ricorre domenica (20 maggio 2007) la solennità dell’Ascensione del Signore. Una preghiera di Paolo ne evidenzia il significato: “Che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,17-19).

Se frutto della Pasqua è l’amore, come Gesù diceva domenica scorsa (“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”, Gv 14,23), il senso dell’Ascensione sta nel pieno dispiegamento di un amore così grande. Il Padre che “lo aveva fatto sedere alla sua destra nei cieli” (Ef 1,20), ora stringe a Sé, nel Figlio che già S’era inoltrato persino negli Inferi, l’intera comunità umana. Per questo anche Paolo fa ai cristiani questo augurio: “il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l'efficacia della sua forza” (Ef 1,17-19).

La realtà di Gesù che sale al Padre “che è nei cieli” è così intensa che gli evangelisti ce l’anno tramandata rivestendola comprensibilmente dei nostri linguaggi del tempo e dello spazio. In modo particolare Luca, all’inizio del libro de Gli Atti degli Apostoli, nota che Gesù “si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio” (At 1,3).
Proprio questa terminologia di carattere temporale non va intesa come una materiale sequenza di giorni, ma come la ricomprensione, nella prospettiva della Pasqua di Gesù che avviene nel nostro tempo, di tanti episodi della Scrittura caratterizzati a loro volta proprio dalla cifra ‘quaranta’. Quasi ci venisse data una chiave di lettura pasquale dei giorni del Diluvio (Gn 7,12), della permanenza di Mosè sul Sinai (Es 24,18 e Dt 9,9), degli anni passati da Israele nel deserto (Es 16,35), della fuga di Elia all’Oreb (1Re 19,8) o anche della minaccia di Giona ai niniviti (Gn 3,4); fino ai giorni di digiuno e di tentazione passati da Gesù nel deserto (Lc 4,1). Così i quaranta giorni che seguono la Sua morte e risurrezione, fino alla Sua Ascensione, diventano un singolare tempo di grazia e di amore di Gesù, che predispone i Suoi discepoli ad accogliere il dono dello Spirito Santo: “avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8). Anzi, “di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto” (Lc 24,48-49).

Ma questo mistero del Signore potrebbe essere interpretato anche in una prospettiva spaziale. Del resto, tanta iconografia cristiana si è espressa in questo senso, a partire proprio dalla stessa Parola di Dio: “Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo” (Lc 24,50-51). Tuttavia, affidandoci ad una interpretazione spaziale dell’Ascensione, importa riferisi non ad una spazialità fisica, ma ad uno spazio teologico sotteso all’immagine di Gesù che viene “portato verso il cielo”. Il cielo, il mondo (lo spazio appunto) del Padre Suo. Dove l’amore è pienamente realizzato.
Gesù, che venendo dal Padre per amore, aveva detto, entrando nel mondo: “‘Ecco, vengo’ (nel rotolo del libro è scritto di me) ‘per fare, o Dio, la tua volontà’” (Eb 10,7), ora al Padre Si ricongiunge. “Nel cielo” del Padre Suo Gesù si trova ad essere, come dice Paolo: “al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro. Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose” (Ef 1,21-23).
Il Padre che già aveva regalato al mondo il Suo Figlio unigenito ora non Se lo riprende possessivamente, quasi sottraendoceLo. Ce lo ridona piuttosto nella pienezza propria della realtà della Sua Chiesa che non ha altro compito che proclamare al mondo la realizzazione concreta dell’amore gratuito di Dio. Per tutti e per ciascuno: “in tutte le cose”.

L’Ascensione di Gesù al cielo è, molto più semplicemente, l’affermazione della piena vittoria dell’amore, che Gesù stesso ci ha insegnato, su ogni forma di odio. Su qualsiasi espressione di morte.

La gioia del Signore risorto riempia, dunque, il tempo e lo spazio della vostra esistenza. Anzi, la domenica che ci attende, sia ricolma ancora una volta della Sua gioia. Come per i Suoi discepoli, che, “dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24,52-53).
Il mio saluto più cordiale.

don Walter Magni

giovedì 10 maggio 2007

Sesta Domenica di Pasqua - 13 maggio 2007

l’Ultima cena, Mario Bogani

Giovanni 14,23-29: [23]Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. [24]Chi non mi ama non osserva le mie parole; la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. [25]Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. [26]Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. [27]Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. [28]Avete udito che vi ho detto: Vado e tornerò a voi; se mi amaste, vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me. [29]Ve l'ho detto adesso, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate.

Cari amici e care amiche,
già domenica scorsa Gesù affermava nel Vangelo che l’amore è il segno più alto della Sua Pasqua: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35). Con domenica prossima (VI di Pasqua, 13 maggio 2007)), Gesù ci descriverà i dinamismi più profondi e intimi dell’amore di Dio (Gv 14,23-29).

Se dovessimo, infatti, fare dell’amore la chiave interpretativa della vita di un uomo, dopo aver evidenziato che è di tutti sperimentare il bisogno innato d’essere amati, determinante è poi il passaggio dal desiderio di poter sperimentare un amore caratterizzato dalla reciprocità all’amore gratuito proprio del cuore stesso di Dio.
Ma come giungere a un amore così alto? Gesù, rispondendo dirà: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Accettando di rispondere all’amore per Gesù (“Se uno mi ama”), non si fa che osservare quanto già ci aveva comandato di fare (“Vi do un comandamento nuovo….” Gv 13,35), entrando così in una profonda intimità con Dio stesso, sperimentando addirittura la Sua inabitazione in noi: “il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”.

Ma è chiaro che si tratta di una relazione così profonda dei Suoi discepoli con la pienezza di Dio che può essere attuata solo “per opera dello Spirito Santo” (Mt 1,18). Per questo Gesù prosegue dicendo: “queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,25-26). In questo senso “il Consolatore”, cioè il ‘difensore’, l’aiutante per eccellenza), non intende propriamente aggiungere qualcosa a quanto Gesù ci ha già detto con la Sua esistenza a riguardo di Dio, ma Suo compito è piuttosto quello di aiutarci a fare memoria viva e reale della Parola con la quale Dio ci ha amati: “Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Gv 3,16). Ci si accorge così che l’amore, di sua propria natura, non aggiunge, ma piuttosto scava, riportando gli amanti in gioco (i discepoli di Gesù) alla sorgente stessa di questa singolare relazione. I Suoi discepoli non hanno il compito di inventare l’amore, ma di continuare a riproporlo al mondo, esprimendosi nelle infinite sfaccettature dell’affidamento.

Di conseguenza, essere così abitati dall’amore di Dio significa sperimentare la pace: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” (Gv 14,27). Ci è dato così di comprendere davvero il senso dell’augurio di pace che Gesù risorto farà ai Suoi, mentre si trovavano rinchiusi nel Cenacolo per paura dei Giudei, quando: “la sera di quello stesso giorno (…), Gesù venne e si presentò in mezzo a loro, e disse: ‘Pace a voi” (Gv 20,19.21).
Una pace che differisce dalla pace mondana: “non come la dà il mondo, io la do a voi”. Che non coincide col pacifismo o l’irenismo. Essendo frutto anzitutto di un amore teologico, si caratterizza come qualcosa che va “sino alla fine” (Gv 13,1), raggiungendo la sua massima espressione nel dono di sé: “Sino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8).

La volontà del Padre, cioè la relazione definitiva di Gesù con Lui, è così determinante per Gesù, che neppure sembra dare peso alla sofferenza e alla morte che Lo attendono. Anzi, quasi volesse infondere questo atteggiamento di abbandono anche nei Suoi, li provoca addirittura ad esprimere la stessa tensione d’amore propria del cuore di Dio: “Avete udito che vi ho detto: Vado e tornerò a voi; se mi amaste, vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l'ho detto adesso, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate” (Gv 14,28).
Del resto, è straordinario che l’evangelo di Giovanni ci consegni, caratterizzato da questa pregnanza, il significato della Pasqua di Gesù, usufruendo proprio del contesto che precede immediatamente la Sua morte e risurrezione. Ma questo è pure quanto avviene in occasione della nostra partecipazione all’Eucaristia domenicale. Per un verso, raccogliamo già il frutto della morte e risurrezione di Gesù, per un altro, in vigile attesa di Lui (“annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, in attesa della tua venuta”), ci disponiamo già a morire d’amore per Lui. Come Lui, se fosse necessario. Accogliendo così, concretamente, di domenica in domenica, il dono stesso, il frutto straordinario e bellissimo, della Sua risurrezione: “Ve l’ho detto adesso, prima che avvenga, perché quando avverrà, voi crediate” (Gv 14,29).

La Sua pace vi riempia il cuore e la gioia del Suo amore splenda ancora sul vostro volto.
Buona domenica.

don Walter Magni

sabato 5 maggio 2007

V Domenica di Pasqua - 6 maggio 2007

Duccio da Buoninsegna, Cristo si congeda dagli Apostoli (1308-11)

Giovanni 13,31-33.34-35: [30]Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte. [31]Quand'egli fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. [32]Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. [33]Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete, ma come ho già detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove vado io voi non potete venire. [34]Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. [35]Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri.


Cari amici e care amiche,

in queste domeniche ci stiamo domandando: come Gesù risorto si è mostrato ai Suoi? Anche se, per sé, il brano evangelico che sarà proposto domenica prossima (V di Pasqua, 6 maggio 2007), è tratto dal colloquio di Gesù con i discepoli durante l’Ultima Cena (Gv 13,31-33.34-35). Una pericope che, collocata subito dopo ‘la lavande dei piedi’ (Gv 13,11-20) e l’annunzio del tradimento di Giuda (Gv 13,21-30), prelude anzitutto più all’imminenza della morte che non alla gloria della risurrezione.

Se nelle prime domeniche di Pasqua sono state proposte alla nostra attenzione tre apparizioni di Gesù risorto (Gv 20,1-18; 20,19-31 e 21,1-19) e domenica scorsa una lettura pasquale dell’immagine del Buon Pastore (Gv 10,27-31), con domenica prossima la nostra relazione col Risorto non è più affidata alla forza di alcuni segni o di una immagine, ma alla capacità convincente della Sua stessa parola. Come se Gesù, prima di morire, volesse rispondere a questa domanda, parlando ai Suoi: cosa vi resterà da fare dopo la mia morte, per annunciare a tutti che sono davvero risorto? “Vi do un comandamento nuovo; che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34).
Ma per addentrarci nel significato propriamente pasquale del comandamento dell’amore (Gv 13,34-35), è bene guardare anche al contesto prepasquale nel quale viene proclamato (Gv 13,30-31) e anche al linguaggio che Gesù usa per dire della Sua risurrezione (Gv 13,31-33).

All’inizio del brano, infatti, si dice: “Quand’egli fu uscito” (Gv 13,31), riferendosi a quanto Giuda aveva fatto poco prima: “preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte” (Gv 13,30). Ma, uscire dalla stanza nella quale si trova Gesù coi Suoi – da dove si sta irradiando la luminosità della Sua Pasqua –, significa purtroppo ‘entrare’ nelle tenebre della notte. Gesù, infatti, è “la luce degli uomini” che “splende nelle tenebre” (Gv 1, 4-5) e andarsene da dove Lui, il Figlio di Dio, è già entrato – “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,8) – comporta abbandonare il senso stesso dell’umanità. Egli, infatti, facendoSi uomo ha rischiarato l’umanità, rendendola se stessa. Qualificandola proprio con la Sua morte e risurrezione. Giuda, allontanandosi da dove Gesù esprimerà pienamente, secondo il cuore di Dio stesso, il significato dell’umanità, si avvia inesorabilmente in scelte disumane, come il tradimento di Lui e l’annientamento di sé.

Ma se il Risorto, dopo la morte, apparirà ai Suoi dimostrandoSi attraverso dei segni, in questo contesto prepasquale è Gesù stesso che ci parla della Sua risurrezione, con una spiegazione verbale di ciò che sta per accadere: “Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi” (Gv 13,32-33).
C’è la voluta ripetizione dei termini “glorificato” e “glorificherà”, mentre il tono del Suo linguaggio è affettuoso e familiare. Ma Gesù sta ormai dicendo, in questo modo, della Sua glorificazione-risurrezione, cioè il senso realizzato della Sua esistenza, pienamente espresso nella relazione col Padre Suo. La vittoria sulla morte, cioè la Sua risurrezione, è il compimento stesso di questa relazione. Il ricongiungimento ‘glorioso’ di Lui col Padre Suo.
Addentrarsi, dunque, nella profondità della Sua Pasqua, così come con l’incarnazione Lui è entrato nella nostra umanità, significa accogliere quelle stesse parole che vengono proprio dalla pienezza e dall’esuberanza del Suo cuore. Così come di lì a poco pregherà dicendo: “Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te” (Gv 17,1).

Se poco prima Giuda se n’è andato (Gv 13,30-31), ora è Gesù che Se ne va: “Figlioli, ancora per poco sono con voi” (Gv. 13,33). Se non è difficile intuire la velata malinconia che Gesù ha per i Suoi, è chiaro tuttavia che il senso ultimo del Suo andare altro non è che amore: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). La Sua Pasqua trova piena espressione e misura nell’amore. Infatti: “come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri”.
Se per un verso Gesù muore per amore, questa Sua morte trova ‘compimento’ nell’amore tra i Suoi. Come già aveva detto stando seduto a tavola con loro: “fate questo in memoria di me” (Lc 22,19); ripetendolo, dopo aver lavato loro i piedi: “Se dunque io, che sono il Signore e il Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13,14).
Le variegate modalità dell’amore umano trovano qui un punto di non ritorno. Dal racconto della Sua Pasqua in poi, amare significa, per i Suoi discepoli come anche per tutti gli uomini di buona volontà, amare così come Lui ci ha amati. Così come ama Dio, che altro non è che Amore.

Pertanto, la partecipazione domenicale alla Sua eucaristia che, di domenica in domenica, diventa anche nostra, è, lungo la storia dell’umanità, l’affermazione evidente che Gesù è davvero risorto da morte: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.

Un cordiale saluto a tutti.

don Walter Magni