venerdì 28 settembre 2007

XXVI Domenica del Tempo Ordinario

Lazzaro ed il ricco Epulone, illustrazione dall'Evangeliario di Echternach.

Pannello superiore: Lazzaro alla porta dell'uomo ricco; Pannello centrale: L'anima di Lazzaro è trasportata in Paradiso da due angeli; Lazzaro nel petto di Abramo. Pannello inferiore: L'anima del ricco è trasportata da due diavoli all'inferno; il ricco è torturato nell'inferno.

Luca 16,19-31: [14]I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si beffavano di lui. [15]Egli disse: «Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio. [16]La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora in poi viene annunziato il regno di Dio e ognuno si sforza per entrarvi. [17]E' più facile che abbiano fine il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge. [18]Chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio; chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio. [19]C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. [20]Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, [21]bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe. [22]Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. [23]Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. [24]Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. [25]Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. [26]Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi. [27]E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, [28]perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento. [29]Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. [30]E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. [31]Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi.

Cari amici e care amiche,

domenica 30 settembre ricorre la XXVI del Tempo Ordinario. Ancora Luca ci presenta una famosa parabola di Gesù (16,19-31). Cambiano però gli ascoltatori. Se le parabole del ‘Padre misericordioso’, della ‘pecorella smarrita’, della ‘dramma perduta’, erano rivolte ai pubblicani e ai peccatori (15,1) e quella dell’‘amministratore disonesto’ ai Suoi discepoli (16,1), quella del ‘ricco epulone’, è per i farisei, che essendo molto “attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose” beffandosi di Lui (15,14).

Ecco, dunque, la storia di “un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente”. Come se la ricchezza gli ovattasse il cuore e gli bendasse gli occhi, mentre porpora e bisso diventano delle pesanti tute protettive che ottundono i sentimenti del cuore e un corretto uso dell’intelligenza. Dio, invece, “da ricco che era si fece povero” (2 Cor 8,9), al punto che, “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,6-8). In questa sta il senso ultimo della Sua misericordia.

Di contro al ricco c’è “un mendicante di nome Lazzaro (‘Dio aiuta’)”, che “giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe”. Così accovacciato alla porta del ricco, ci riporta subito a Gesù, che già Si è definito “la porta” (Gv 10,7) o che, stando alla porta, continua a bussare (Ap 3,20), “bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco”. In questo modo la fame di Dio s’intreccia – e s’intreccerà ancora e sempre – con quella dei poveri di tutti i tempi. Infatti, “i poveri li avrete sempre con voi” (Gv 12,8).

Lazzaro si accontenterebbe del superfluo del ricco, ma questi non gi aprirà mai. Danze, cibo e piaceri copriranno inesorabilmente – qui già si preannuncia l’inferno – i lamenti di Lazzaro. La grande questione della povertà, anche ai nostri giorni, non sta anzitutto nel cercare di sanarla, ma nell’accorgersene obiettivamente. Qui sta l’inizio della misericordia che il ricco non sa neppure avviare. Proprio questo non è scontato, soprattutto nella nostra cultura impastata di indifferenza e relativismo. Senza questo presupposto non è dato, neppure ai credenti, di saper declinare correttamente il tema fondamentale della povertà in senso evangelico: “beati voi che siete poveri perché il regno di Dio è vostro” (Lc 6,20).

Punto decisivo dell’intero racconto diventa così l’esperienza della morte: “Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto”. La morte riconduce tutti sullo stesso piano esistenziale. Perché si dà per tutti, ricchi e poveri. Così scatta una nuova partenza, è il ‘dopo morte’ che avvia la differenza che conta: il povero (neppure si parla di una sua sepoltura) viene portato subito in alto, nel seno di Abramo, ‘Padre della fede’; il ricco, dopo essere stato gettato ‘sotto terra’, vi rimane, sprofondando nell’ inferno.

La distanza tra il ricco e Lazzaro, che sta in Abramo “come un bambino in braccio a sua madre” (sl 131), si misura pertanto a partire da Colui che è “prima che Abramo fosse” (Gv 8,58). Che Si è spossessato di Sé per venirci incontro, sino a perderSi in noi. FacendoSi uno con noi. E’ davanti a Lui (Mt 25,31) che si conferma la beatitudine propria di chi ha saputo saziare l’affamato (Mt 25,35) e la maledizione di chi, pur vedendoLo, Gli ha girato le spalle (Mt 25,42). Se solo il nostro Dio ha colmato questo abisso morendo per noi, non riconoscere il valore teologico di questa operazione vitale – cioè proprio dell’azione stessa di Dio che più Lo qualifica e Lo definisce – condanna chiunque a una morte che fa precipitare nell’inferno.

In questo senso il dialogo che segue (16,23-31) tra il ricco e Abramo è, piuttosto, esplicativo di un dato di fatto che merita ancora qualche considerazione. In cosa consiste, infatti, propriamente l’inferno? Nell’ incosciente distanza del ricco dalla condizione esistenziale nella quale si è trovato Lazzaro, quando ancora si trovava accovacciato alla sua porta. Proprio questo atteggiamento di fondo, nella sua persistenza esistenziale, diventa così una vera e propria premessa dell’abissale distanza nella quale il ricco si viene a trovare rispetto a Lazzaro che è adagiato appunto nel seno stesso di Abramo. Cioè nel cuore stesso della nostra fede. Non aver accolto di entrare nella consolazione di Dio, trovandosi davanti alla povertà esistenziale degli uomini preclude, infatti, inesorabilmente la possibilità di accedere alla consolazione propria che ci proviene dal cuore stesso di Dio. Diventa così chiaro e più esplicito il passo che afferma: “se uno dice: ‘Io amo Dio’, ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che ha visto, non può amare Dio che non ha visto” (1 Gv 4,20).

Certo, non c’è distanza che la misericordia di Dio non sappia e non voglia colmare, ma ciò che colpisce è una sorta di vera e propria persistente caparbia nei confronti della misericordia, quando il ricco, stando ormai nei tormenti dell’inferno, non ha alcuna espressione per Lazzaro, ma si dimostra preoccupato della sua arsura o dei suoi fratelli. Per loro prova un senso di apprensione, forse anche di solidarietà, che pure non raggiunge neppure la soglia della misericordia. Non è la morale che ci salva. Neppure il miracolismo di un morto che possa ancora esortare qualcuno al ravvedimento. “Hanno Mosè e i Profeti, ascoltino loro”. Infatti, “la parola di Dio è vivente ed efficace, più affilata di qualunque spada a doppio taglio, e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito, le giunture dalle midolla; essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12).

Ci è chiesto, anche in questa domenica, di imparare a stare, con schiettezza e verità, davanti a quella precisa Parola che il Signore ci vorrà ancora donare, nella Sua infinita misericordia.

Buona domenica a tutti.

don Walter Magni

giovedì 20 settembre 2007

XXV Domenica del Tempo Ordinario

Il dono del mantello (Giotto, 1296-1304, Basilica Superiore di San Francesco, Assisi)

Luca 16,1-13: [1]Diceva anche ai discepoli: «C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. [2]Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore. [3]L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. [4]So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. [5]Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: [6]Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. [7]Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. [8]Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
[9]Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne.
[10]Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto.
[11]Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? [12]E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
[13]Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona».



Cari amici e care amiche,

nel brano proposto dalla liturgia di domenica prossima (Luca 16,1-13, XXV domenica del Tempo Ordinario, 23 settembre 2007), gli interlocutori non sono pubblicani e peccatori, come nella sezione precedente (15,1); neppure quegli scribi e farisei che più che ascoltare preferiscono piuttosto mormorano (16,2). Gli ascoltatori chiamati in causa sono propriamente i Suoi discepoli. In questo senso la cosiddetta parabola dell’’amministratore disonesto’ Gesù la racconta non per “quelli di fuori” (1Cor 5,13), ma per tutti coloro che stanno ‘dentro’ la realtà della Sua Chiesa: “diceva anche ai suoi discepoli” (16,1).

Si tratta dunque di individuare con estrema chiarezza in cosa consiste, propriamente in senso ecclesiale, il patrimonio che andrebbe meglio amministrato. Infatti, nel contesto di una cultura occidentale che tende a valutare anzitutto il senso delle persone e delle cose secondo criteri quantitativi e di visibilità materiale, anche la Chiesa dei discepoli di Gesù è stata – e lo è ancora oggi – intesa come una grande istituzione (una grande azienda), ricca certo di persone, di valori e di beni, inevitabilmente soggetti alle logiche delle leggi del mercato e dello scambio.
Facciamo però subito una precisazione: il bene più prezioso che i discepoli, di ieri e di sempre, sono chiamati a custodire e ad amministrare è il ‘depositum fidei’ che Gesù stesso ci ha consegnato donandoci Sé stesso: “fate questo in memoria di me” (Lc 22,19). E in Lui si riassume tutto l’amore e la misericordia di Dio che il mondo, più o meno consapevolmente, aspetta. In questo senso, le persone, i beni e i valori, che si ritrovano nella Chiesa o attengono principalmente alla trasmissione e alla amministrazione di Lui e del Suo Vangelo, oppure finiscono per essere orpelli inutili e obsoleti, quando non finiscono per diventare dannosi.
In questa stessa prospettiva va dunque accolto il senso di questo racconto di Gesù, che fissa la Sua attenzione sul comportamento disonesto di un amministratore: “C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore”.

L’invito del padrone ‘a rendere conto’ diventa così una provocazione decisiva per chi, avendo il compito di amministrare, finisce per tradire la sua vocazione più profonda. Questi, rientrando “in sé stesso” (come il figlio minore della parabola precedente, 15,17), ci introduce ad una riflessione determinante sul significato e il valore della scaltrezza in rapporto all’annuncio stesso dell’Evangelo: “L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.

Una prima considerazione potrebbe valutare l’effettiva scaltrezza di questo amministratore. Ci si trova davanti ad una strategia di corto respiro, se il risultato è di fatto quello di perdere un posto di lavoro così prestigioso. La sua ottusità si dimostra soprattutto nella debolezza strategica dimostrata da quest’uomo in rapporto al suo futuro. Come sapesse calcolare bene sull’immediatezza del suo presente, senza intuire che prima o poi i nodi sarebbero venuti al pettine. Soprattutto è chiaro che, come anche Gesù afferma al termine del brano, “nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona”.

Ma in gioco c’è una questione più alta. Se è vero che anche Gesù è convinto che “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” – del resto sarebbe interessante comprendere meglio il senso di questa Sua affermazione – questo non esonera comunque “i figli della luce” dal cercare d’essere scaltri, anzitutto in ordine a quanto è chiesto loro di custodire e amministrare. Non dimentichiamo, infatti, che “dai giorni di Giovanni il battista fino a ora, il regno dei cieli è preso a forza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12).

A questo riguardo non si tratta di identificare lo sperpero amministrativo di quest’uomo come la metodologia appropriata per l’annuncio evangelico. Il fine non giustifica mai qualsiasi mezzo in rapporto all’annuncio dell’Evangelo. Se infatti mammona, oltre ad essere un idolo pericoloso,facilmente diventa anche un idolo perverso, la scaltrezza, secondo Gesù, starebbe nel riuscire a bloccare questo vorace meccanismo mondano, introducendo una prospettiva diversa. Tanto l’accumulo delle ricchezze si disperde nelle mani di pochi, quanto invece il dono e la gratuità - espressa pienamente dal dono di sé operato da Gesù - ci insegnano una nuova intelligenza e una interessante strategia dell’annuncio. Nell’esercizio della logica del dono non solo viene neutralizzato il pericolo di un falso accumulo, ma soprattutto ci è dato – stando anzitutto nella realtà della Chiesa dei discepoli del Signore – di diventare autenticamente liberi. Disponibili anzitutto per Lui. In ragione dell’annuncio di Lui. Diffondendo a piene mani soprattutto amore e speranza. E “il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”.

Neppure andrà persa la suggestione evangelica che Gesù suggerisce al termine della parabola: “procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne”, cioè il momento nel quale entreremo definitivamente nel mistero infinito di Dio, dopo la morte. Cosa avverrà in quel momento nessuno lo può anticipare, ma perché non immaginare – come anche suggerisce il Vangelo – che ci verranno incontro tutte quelle persone, conosciute e sconosciute, che in questa vita abbiamo raggiunto con un gesto di gratuità. Forse anche solo con un sorriso.
Soprattutto ci verrà incontro Lui, con la stessa amabilità e intensità di affetto con la quale, di domenica in domenica, ci raggiunge col dono della Sua Parola, del Suo corpo e Suo sangue sparso per noi, semplicemente con amore. Senza alcuna pretesa di ritorno.

Che sia così una serena domenica per tutti.


don Walter Magni

domenica 16 settembre 2007

XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Giorgio De Chirico, Il figliol prodigo (1922, Museo d'Arte Contemporanea, Milano)

Luca 15-1-32: [1]Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. [2]I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro». [3]Allora egli disse loro questa parabola: [4]«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? [5]Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, [6]va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. [7]Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. [8]O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? [9]E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta. [10]Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». [11]Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. [12]Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. [13]Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. [14]Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. [15]Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. [16]Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. [17]Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! [18]Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; [19]non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. [20]Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. [21]Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. [22]Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. [23]Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, [24]perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa. [25]Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; [26]chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. [27]Il servo gli rispose: E' tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. [28]Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. [29]Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. [30]Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. [31]Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; [32]ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».


Cari amici e care amiche,

domenica 16 settembre 2007 si celebra la XXIV del tempo ordinario. Sarà letto il brano evangelico di Luca 15,1-32. Gli interlocutori di Gesù sono molto diversi: “Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: ‘Costui riceve i peccatori e mangia con loro’. Allora egli disse loro questa parabola”. Tanto “i pubblicani e i peccatori” intendono “ascoltarlo” quanto “i farisei e gli scribi mormoravano”. E Gesù, per nulla intimorito, decide di raccontare “loro questa parabola”. La Sua parola è per tutti, ma solo un animo ben disposto può esprimere un ascolto vero.
Per un verso, potremmo lasciarci attrarre dalle immagini dei Suoi racconti – il pastore attento premuroso, la donna di casa accorta e un padre buono –; per un altro, scavando ulteriormente, ci imbattiamo in alcune azioni verbali che ricompaiono continuamente come un ritornello: qualcosa o qualcuno che si perde, qualcuno che si mette a cercare e che infine trova con grande gioia.

L’immagine del pastore ci riporta facilmente a Gesù ‘Buon Pastore’ (il pastore addirittura ‘bello’ del cap. 10 di Gv), anche se, in questo caso, Gesù sembra coinvolgerci più direttamente: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?”.
La donna di casa ci potrebbe persino riportare a Marta di Betania, così attiva e pronta da non accorgersi della ricchezza che la sorella Maria aveva già trovato (Lc 10,40-41): “O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova?”.
Di tutt’altro genere è la figura del padre dei due figli. Quando, infatti, Gesù parla di paternità non ha tanto dei riferimenti umani ed esistenziali cui riferirsi, ma sembra attingere a un’esperienza più profonda e decisiva. Quasi che la capacità immaginativa cedesse il passo alla realtà stessa del Padre Suo e al rapporto con Lui. Come se il volto misericordioso di Dio non sopportasse un livello più immaginativo e allusivo. Solo il Figlio, infatti, può rivelarci appieno il Padre: “Ogni cosa mi è stata data in mano dal Padre mio; e nessuno conosce il Figlio, se non il Padre; e nessuno conosce il Padre, se non il Figlio, e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo” (Mt 11,27).

Qui avviene un passaggio che merita evidenziare. Non è tanto la nostra esperienza umana della paternità che può alludere descrittivamente ad alcuni tratti del volto di Dio, ma è vero il contrario. Un padre che dovesse agire come quello descritto da Gesù nella parabola non meriterebbe approvazione. Non è gran merito lasciare che il figlio minore se ne vada di casa, portandosi via mezza eredità, senza neppure una giustificazione. Riaccogliendolo ancora, dopo che aveva scialacquato tutto. Senza un minimo rimprovero. Qui piuttosto ci è chiesto un salto nel cuore stesso di Gesù, accogliendo quanto ci sta dicendo proprio come parola ‘di Dio’. Come ci stesse dicendo proprio Dio, la Sua stessa paternità. Forse Gesù stava semplicemente commentando un famoso passo del libro dell’Esodo – del resto ripreso poi criticamente anche da Giona profeta 4,2 – nel quale Dio stesso, parlando a Mosè, dice d’essere “il Signore! Il Signore! il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco in bontà e fedeltà” (Es 34,6).

Per meglio comprendere i tratti di questa singolare misericordia, ci vengono così in aiuto alcune azioni verbali che ritornano puntualmente in tutti e tre i racconti ascoltati.
La prima esperienza esistenziale che ci introduce a comprendere la misericordia di Dio è quella dello smarrimento: una pecora che si perde nella boscaglia, una dramma che finisce chissà sotto quale mobile, un figlio che se ne va dalla casa paterna, magari sbattendo la porta. Se non ci esercitiamo a ripartire dall’esperienza esistenziale dello smarrimento, c’è davvero il rischio che la misericordia di Dio venga confusa con un ingenuo buonismo e, per questo, inevitabilmente disattesa. In questo senso Gesù, parlando a Simone il Fariseo della peccatrice, scorge proprio in lei una particolare predisposizione a questa misericordia, affermando che “i suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato; ma colui a cui poco è perdonato, poco ama” (Lc 7,47).

La seconda azione verbale è la ricerca a oltranza che solo Dio sa mettere in atto in rapporto non solo genericamente all’uomo, ma specificamente al peccatore. Forse sarà sempre difficile determinare le ragioni della perdita. Ma resta il fatto che il pastore non si darà mia pace finché non ritrovi una pecorella; come la donna la sua moneta e come questo padre che non si stancherà di stare ad aspettare, fino a quando anche solo la sagoma del figlio si profili all’orizzonte.

Ma decisiva, per riuscire a cogliere la misericordia dalla parte stessa di Dio, è proprio l’ultima azione. Se, infatti, è Dio che ci cerca, allora certamente sarà Lui a ritrovarci, provando una gioia indicibile. Come il pastore che “va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta”; o la donna che, “dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta”. Il padre misericordioso, preso da una gioia incontenibile, se non è detto che sia stato davvero ben compreso dal figlio minore, il prodigo, neppure sarà compreso dal figlio maggiore, al quale dirà che “bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.

Che la gioia che tutti noi sperimentiamo, partecipando all’eucaristia domenicale, sia sempre più radicata nella gioia che Dio stesso prova nel vederci a tavola con Suo Figlio.
Che sia una buona domenica per tutti.

don Walter Magni

domenica 9 settembre 2007

XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Il Cireneo

Luca 14-25-33: [25]Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: [26]«Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. [27]Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo. [28]Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? [29]Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: [30]Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. [31]Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? [32]Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace. [33]Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.


Cari amici e care amiche,

domenica 9 settembre 2007 si celebra la XXIII domenica del tempo ordinario. Il brano evangelico proposto (Lc 14,25-33) è esigente. Gesù sta rispondendo alla domanda circa le condizioni per diventare Suoi discepoli. Questione che riguarda tutti i credenti, senza distinzioni. Ma che senso ha verificare, magari dopo anni di lunga frequentazione ecclesiastica e di pratica celebrativa, se siamo o non siamo credenti? A volte, stando davanti a certe parole di Gesù, si ha l’impressione di non arrivare mai. Di non riuscire di principio ad adempiere pienamente le condizioni che Lui ci propone di volta in volta. Provando un senso di smarrimento e di inadeguatezza.

La prima affermazione di Gesù, infatti, è molto precisa e non lascia scampo a un certo possibilismo interpretativo: “Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse: ‘Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo’”. Gesù non è affatto preoccupato di avere un seguito quantitativamente rilevante e di immagine. Tradendo un certo timore per la massa – “siccome molta gente andava con lui” – va alla questione di fondo: “Se uno viene a me e non odia”.
Una precisazione va fatta circa il verbo ‘odiare’. Gli esegeti notano che siamo in presenza della strutturale povertà dei termini della lingua aramaica usata da Gesù, più che non di un vero e proprio odio verso i propri famigliari, esplicitamente richiesto da Gesù a tutti coloro che intendono seguriLo. Odiare starebbe piuttosto ad esprimere distacco, superamento.
Tuttavia, resta ugualmente valido il senso provocatorio dell’espressione usata da Gesù che, con molta probabilità, vuole stimolare seriamente la nostra sensibilità. Se non dobbiamo ‘odiare’ nessuno per seguirLo, un salto qualitativo in termini relazionali va pure messo in atto. Almeno nel senso di riconoscere a Gesù un vero e proprio primato affettivo. Quasi chiedesse per Sé (“se uno viene a me”) un cuore indiviso e una mente convinta, una volta che si è deciso di stare al Suo seguito. Come anche aveva già detto altrove: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37). Gesù stesso poi ha sperimentato, dal punto di vista affettivo, una certa incomprensione da parte dei Suoi parenti, che avedendoLo visto un giorno così dedito alla gente, dicevano: “È fuori di sé” (Mc 3,21).

Ma Gesù diventa più esplicito: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo”. Se l’‘odiare’ riguarda propriamente gli altri, al discepolo è richiesta anche una vera e propria violenza su di sé, con la richiesta di portare la propria croce.
C’è un’obiezione di fondo: se il Dio di Gesù Cristo ama così tanto la vita, sino a identificarsi con essa (Gv 14,6), come giustificare l’autolesionismo proprio di una richiesta così esplicita a portare “la propria croce” al fine di poterLo seguire davvero? In un mondo che idealizza vitalismo e scioltezza esistenziale, la parola della croce (1 Cor 1,17) sembrerebbe negare l’aspirazione primaria alla vita. Se, per un verso, l’intenzione dichiarata di Gesù è condurre i Suoi alla pienezza della vita (Gv 10,10), resta pur vero, tuttavia, che la vita stessa chiede d’essere conquistata a caro prezzo (1 Cor 6,20 e 7,23). Tanto che “dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli è preso a forza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12). Del resto, nessun grande progetto si realizza nella mollezza e nella semplificazione.

Diventano più comprensibili a questo punto anche i verbi usati da Gesù, nei racconti che seguono: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Il primo atteggiamento richiesto a un discepolo di Gesù è saper valutare (con intelligenza) cosa comporta propriamente l’adesione al Suo progetto evangelico: “sedersi a calcolare e a esaminare”.
Questa capacità di calcolo viene completata dalla capacità di ‘esaminare’, descritta nell’altro racconto: “Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace”.
Così, facendo sintesi di quanto Gesù ci ha detto (calcolare ed esaminare), la tradizione della Chiesa ha sempre cercato di esercitare – soprattutto nei tempi di crisi – la pratica del discernimento. Chiede ai credenti di saper distinguere, in senso spirituale, cose, problemi, situazioni, permettendo così all’Evangelo di fare la sua corsa. Un discernimento non solo intelligente, ma, appunto,‘spirituale’, cioè secondo lo stesso Spirito di Gesù.

In questo senso l’ultima azione verbale di questa pericope che può essere evidenziata è illuminante: “Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Il fatto che Gesù per tre volte ripeta l’espressione “non può essere mio discepolo”, fa della “rinunzia a tutti i suoi averi” una vera e propria condizione imprescindibile. Ma a cosa esattamente si deve rinunciare? A qualsiasi subdola forma di potere e di dominio – anche nella Chiesa – che non sia obiettivamente confrontato con quanto sta nel cuore stesso di Dio, accettando così, senza mezzi termini e misure, di mettere Lui al primo posto.

E’ per questo che la Domenica è per i credenti il giorno del Signore. Il giorno nel quale facciamo memoria della totale disponibilità di Gesù al Padre Suo. Il giorno del Suo definitivo dono d’amore.
Che sia per tutti una domenica serena e nella Sua pace.

don Walter Magni