giovedì 20 settembre 2007

XXV Domenica del Tempo Ordinario

Il dono del mantello (Giotto, 1296-1304, Basilica Superiore di San Francesco, Assisi)

Luca 16,1-13: [1]Diceva anche ai discepoli: «C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. [2]Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore. [3]L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. [4]So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. [5]Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: [6]Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. [7]Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. [8]Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
[9]Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne.
[10]Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto.
[11]Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? [12]E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
[13]Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona».



Cari amici e care amiche,

nel brano proposto dalla liturgia di domenica prossima (Luca 16,1-13, XXV domenica del Tempo Ordinario, 23 settembre 2007), gli interlocutori non sono pubblicani e peccatori, come nella sezione precedente (15,1); neppure quegli scribi e farisei che più che ascoltare preferiscono piuttosto mormorano (16,2). Gli ascoltatori chiamati in causa sono propriamente i Suoi discepoli. In questo senso la cosiddetta parabola dell’’amministratore disonesto’ Gesù la racconta non per “quelli di fuori” (1Cor 5,13), ma per tutti coloro che stanno ‘dentro’ la realtà della Sua Chiesa: “diceva anche ai suoi discepoli” (16,1).

Si tratta dunque di individuare con estrema chiarezza in cosa consiste, propriamente in senso ecclesiale, il patrimonio che andrebbe meglio amministrato. Infatti, nel contesto di una cultura occidentale che tende a valutare anzitutto il senso delle persone e delle cose secondo criteri quantitativi e di visibilità materiale, anche la Chiesa dei discepoli di Gesù è stata – e lo è ancora oggi – intesa come una grande istituzione (una grande azienda), ricca certo di persone, di valori e di beni, inevitabilmente soggetti alle logiche delle leggi del mercato e dello scambio.
Facciamo però subito una precisazione: il bene più prezioso che i discepoli, di ieri e di sempre, sono chiamati a custodire e ad amministrare è il ‘depositum fidei’ che Gesù stesso ci ha consegnato donandoci Sé stesso: “fate questo in memoria di me” (Lc 22,19). E in Lui si riassume tutto l’amore e la misericordia di Dio che il mondo, più o meno consapevolmente, aspetta. In questo senso, le persone, i beni e i valori, che si ritrovano nella Chiesa o attengono principalmente alla trasmissione e alla amministrazione di Lui e del Suo Vangelo, oppure finiscono per essere orpelli inutili e obsoleti, quando non finiscono per diventare dannosi.
In questa stessa prospettiva va dunque accolto il senso di questo racconto di Gesù, che fissa la Sua attenzione sul comportamento disonesto di un amministratore: “C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore”.

L’invito del padrone ‘a rendere conto’ diventa così una provocazione decisiva per chi, avendo il compito di amministrare, finisce per tradire la sua vocazione più profonda. Questi, rientrando “in sé stesso” (come il figlio minore della parabola precedente, 15,17), ci introduce ad una riflessione determinante sul significato e il valore della scaltrezza in rapporto all’annuncio stesso dell’Evangelo: “L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.

Una prima considerazione potrebbe valutare l’effettiva scaltrezza di questo amministratore. Ci si trova davanti ad una strategia di corto respiro, se il risultato è di fatto quello di perdere un posto di lavoro così prestigioso. La sua ottusità si dimostra soprattutto nella debolezza strategica dimostrata da quest’uomo in rapporto al suo futuro. Come sapesse calcolare bene sull’immediatezza del suo presente, senza intuire che prima o poi i nodi sarebbero venuti al pettine. Soprattutto è chiaro che, come anche Gesù afferma al termine del brano, “nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona”.

Ma in gioco c’è una questione più alta. Se è vero che anche Gesù è convinto che “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” – del resto sarebbe interessante comprendere meglio il senso di questa Sua affermazione – questo non esonera comunque “i figli della luce” dal cercare d’essere scaltri, anzitutto in ordine a quanto è chiesto loro di custodire e amministrare. Non dimentichiamo, infatti, che “dai giorni di Giovanni il battista fino a ora, il regno dei cieli è preso a forza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12).

A questo riguardo non si tratta di identificare lo sperpero amministrativo di quest’uomo come la metodologia appropriata per l’annuncio evangelico. Il fine non giustifica mai qualsiasi mezzo in rapporto all’annuncio dell’Evangelo. Se infatti mammona, oltre ad essere un idolo pericoloso,facilmente diventa anche un idolo perverso, la scaltrezza, secondo Gesù, starebbe nel riuscire a bloccare questo vorace meccanismo mondano, introducendo una prospettiva diversa. Tanto l’accumulo delle ricchezze si disperde nelle mani di pochi, quanto invece il dono e la gratuità - espressa pienamente dal dono di sé operato da Gesù - ci insegnano una nuova intelligenza e una interessante strategia dell’annuncio. Nell’esercizio della logica del dono non solo viene neutralizzato il pericolo di un falso accumulo, ma soprattutto ci è dato – stando anzitutto nella realtà della Chiesa dei discepoli del Signore – di diventare autenticamente liberi. Disponibili anzitutto per Lui. In ragione dell’annuncio di Lui. Diffondendo a piene mani soprattutto amore e speranza. E “il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”.

Neppure andrà persa la suggestione evangelica che Gesù suggerisce al termine della parabola: “procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne”, cioè il momento nel quale entreremo definitivamente nel mistero infinito di Dio, dopo la morte. Cosa avverrà in quel momento nessuno lo può anticipare, ma perché non immaginare – come anche suggerisce il Vangelo – che ci verranno incontro tutte quelle persone, conosciute e sconosciute, che in questa vita abbiamo raggiunto con un gesto di gratuità. Forse anche solo con un sorriso.
Soprattutto ci verrà incontro Lui, con la stessa amabilità e intensità di affetto con la quale, di domenica in domenica, ci raggiunge col dono della Sua Parola, del Suo corpo e Suo sangue sparso per noi, semplicemente con amore. Senza alcuna pretesa di ritorno.

Che sia così una serena domenica per tutti.


don Walter Magni

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