giovedì 30 agosto 2007

XXII Domenica del Tempo Ordinario - 2 settembre 2007

Lina Delpero, Ultima Cena

Luca 14,1.7-14: [1]Un sabato era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo. [2]Davanti a lui stava un idropico. [3]Rivolgendosi ai dottori della legge e ai farisei, Gesù disse: «E' lecito o no curare di sabato?». [4]Ma essi tacquero. Egli lo prese per mano, lo guarì e lo congedò. [5]Poi disse: «Chi di voi, se un asino o un bue gli cade nel pozzo, non lo tirerà subito fuori in giorno di sabato?». [6]E non potevano rispondere nulla a queste parole.
[7]Osservando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro una parabola: [8]«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te [9]e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. [10]Invece quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. [11]Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». [12]Disse poi a colui che l'aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch'essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. [13]Al contrario, quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; [14]e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Cari amici e care amiche,

domenica prossima (2 settembre 2007) si celebra la XXII domenica del tempo ordinario con la proposta di un brano del vangelo di Luca (14,1.7-14). Da qualche giorno sono nella parrocchia di “Dio Padre” di Milano 2 (Segrate). La cordialità sorridente con la quale molti mi vengono incontro rientrando dalla loro vacanza estiva, s’accompagna spesso con un simpatico invito a pranzo o a cena. Così, fatte le debite differenze, mi capita di sentirmi osservato. Un po’ come Gesù che “un sabato era entrato in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare e la gente stava ad osservarlo”.

Il fatto che “la gente stava ad osservarlo” va precisato. Una cosa è osservare Gesù “per metterlo alla prova” (Lc 10,25 e 11,16), come spesso fanno scribi e farisei; altro, invece, è ‘osservare’ Gesù con ammirazione profonda e grande senso di attesa, come questa gente. Accingendoci, dunque, ad ascoltare la Sua Parola è determinante scegliere da che parte ci poniamo nei Suoi confronti.
Del resto, questo lo si comprenderebbe bene se si leggesse l’episodio della guarigione dell’idropico in giorno di sabato (Lc 14,2-6). Un passo che, tuttavia, la lettura liturgica di questa domenica omette.
Questo spiegherebbe anche il ribaltamento della situazione. Gesù, infatti, dopo aver messo a tacere dottori della legge e farisei, i quali “non potevano rispondere nulla” alle Sue provocazioni (Lc14,6), da osservato con sospetto da loro, diventa a Sua volta un attento osservatore. Si dice, infatti, al v. 7: “osservando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro una parabola”. Anche questo passaggio è particolarmente rivelativo della Sua singolare metodologia comunicativa. SentendoSi, infatti, osservato, decide di spiegare loro il significato singolare di ciò che hanno visto. Come Suo solito, con una parabola: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: Amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali”.

A Gesù, che molto probabilmente ci sta parlando di Sé partendo da episodi di vita familiare e quotidiana, non era sfuggita certo la scena pietosa e goffa della corsa ai primi posti in occasione di una festa di matrimonio. Del resto, proprio degli scribi Gesù stesso dirà: “Guardatevi dagli scribi, i quali passeggiano volentieri in lunghe vesti, amano essere salutati nelle piazze, e avere i primi posti nelle sinagoghe e nei conviti” (Lc 20,46).
Proprio cominciando da loro, dunque, Gesù annuncia il senso dell’umiltà evangelica. Che coincide propriamente con quello stesso Spirito che Lo pervade e Lo guida, venendo nel mondo, a scegliere l’ultimo posto. Come anche Paolo ci esorta ad essere: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” Fil 2,5-11).

Questa, dunque, la conclusione del discorso agli invitati alle nozze dell’Agnello (Ap 19,7.9): “chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. Nella convinzione che l’umiltà evangelica non implica necessariamente l’umiliazione. Una cosa è l’umiliazione di chi esaltandosi, cioè autoproponendosi, è poi costretto a un’umiliante retrocessione di posto; altro è, invece, l’umiltà proprio di chi, umiliandosi per amore, “sarà esaltato”. Se l’umiliazione ci deriva facilmente dagli altri, l’umiltà evangelica è piuttosto frutto di una conquista schietta e faticosa messa in atto nei propri confronti, ma nell’orizzonte di una profonda relazione con Dio creatore che dà una corretta e oggettiva consapevolezza di sé ad ogni creatura. Perché mai Gesù è umilmente Se stesso? Perché come Figlio sta continuamente in rapporto col Padre Suo. Così pure Maria, che si è lasciata attraversare dallo stesso Spirito di Gesù, può essere proclamata a tutti gli effetti ‘madre dell’umiltà’: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata” (Lc 1,47-48).

Una parola precisa Gesù la riserva anche a colui che l’ha invitato: “Disse poi a colui che l’aveva invitato: ‘Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti’”. Se agli invitati Gesù ha proposto lo spirito dell’umiltà evangelica, ora propone la beatitudine della gratuità a coloro che hanno a loro volta il coraggio di invitare. Ma anche a questo riguardo è chiesto un vero e proprio capovolgimento, se vogliamo davvero saper accogliere il Vangelo di Gesù nella nostra vita. Si tratta, infatti, di passare dalla logica calcolata della reciprocità a quella divina della gratuità.
Non si tratta affatto di disprezzare il valore dello scambio e l’esigenza di una umana reciprocità nelle cose e negli affetti, ma di riaffermare, con sempre maggior forza e convinzione, il primato della grazia e della gratuità: sia nei confronti della nostra relazione con Dio, sia nella relazione con noi stessi, come pure nelle nostre relazioni sociali, culturali e interpersonali. Solo l’esercizio paziente nei confronti della gratuità evangelica che Gesù ci ha insegnato ci permetterà di gustare l’amore gratuito che Lui stesso ci ha voluto insegnare.

L’Eucaristia domenicale è il segno indelebile – per i credenti e per gli uomini amati da Dio – della possibilità reale, nel nostro mondo sin troppo percorso da pesanti logiche di interesse e di profitto, della beatitudine della gratuità secondo il cuore di Dio.
Che sia dunque una buona domenica per tutti.


don Walter
Magni

giovedì 23 agosto 2007

XXI Domenica del Tempo Ordinario – 26 agosto 2007

“Ave, Tu barca di chi ama salvarsi; Ave, Tu porto a chi salpa alla Vita” (dall’inno Akathistos)

Luca 13,22-30: [22]Passava per città e villaggi, insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme. [23]Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Rispose: [24]«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno. [25]Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: Signore, aprici. Ma egli vi risponderà: Non vi conosco, non so di dove siete. [26]Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. [27]Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d'iniquità! [28]Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori. [29]Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. [30]Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi».


Cari amici e care amiche, ben ritrovati!

Col brano evangelico di domenica prossima (XXI del Tempo Ordinario, 26 agosto 2007, Lc 13,22-30) assistiamo alla scena di Gesù che “passava per città e villaggi, mentre camminava verso Gerusalemme”. Se predicando Gesù finisce per sostare là dove la gente vive, la Sua mèta resta comunque Gerusalemme (Lc 9,51). Ed ecco allora che “un tale gli chiese: ‘Signore, sono pochi quelli che si salvano?’”. C’è del pessimismo calcolato – se solo pochi si salvano, quanti saranno? – e dell’interesse celato: sarò annoverato tra questi “pochi” eletti?
Interrogativi rintracciabili anche nel ritorno del sacro e del religioso nella cultura Occidentale, che pure rimane avvolta nell’indifferenza teologica e nel relativismo dei valori (Benedetto XVI). Anzi, l’accento quantitativo della questione così posta tradisce un’inevitabile autoreferenzialità. La stessa debolezza della fede cristiana oggi si radicherebbe in una accentuata preoccupazione di sé (compreso l’assillo per la destinazione ‘post mortem’), incapace di compromettersi in una sincera relazione col Dio di Gesù Cristo, che solo per amore Si è fatto carico della salvezza di ogni uomo, volendo “che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità”(1 Tm 2,4).

La risposta di Gesù punta più in profonditài. Non è in questione sapere ‘quanti’ si salveranno (e pure: io mi salverò?), piuttosto: cosa comporta il fatto che proprio Gesù (“Dio salva”) è il Salvatore. Per questo comincia a raccontare servendosi di immagini e parabole.
La prima è metafora famosa: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno”. Se pure Gesù non sembra disprezzare una lettura quantitativa della salvezza, la questione diventa cruciale: se, infatti, la porta è stretta, allora solo uno alla volta la può attraversare. Senza più alcun effetto di trascinamento: l’appartenenza a un gruppo, a una etnia culturale, a una religione o a una chiesa non è più una garanzia.
Ma se l’accento della metafora cade propriamente sulle misure della porta, allora è la fede cristiana la “porta stretta” che chiede continuamente serietà e coraggio: “porta stretta è la Parola di Dio quando appare povera e indifesa, senza sostegni di ordine razionale, e richiede pertanto il rischio della fede. Porta stretta è l’amore evangelico che deve raggiungere anche chi non è amabile. Porta stretta è Gesù che oggi vediamo camminare in direzione di Gerusalemme dove dovrà affrontare la sofferenza e la morte” (L. Pozzoli, L’acqua che io vi darò, Paoline, 2006. p 219). Così dirà, infatti, Gesù di Se stesso: “Io sono la porta: se uno entra per me, sarà salvato, entrerà e uscirà, e troverà pastura” (Gv 10,9).
E a noi, che siamo invitati ad attraversarla, non si chiede un generico dimagrimento, una moralistica semplificazione di sé. Ma piuttosto di esercitare quella stessa umiltà che caratterizza continuamente Gesù quando si rapporta al Padre Suo. Questo abbandono fiducioso alla Sua misericordia, così come Gesù ha sempre confidato nel Padre, è il senso ultimo della nostra salvezza. Sino ad accettare di stare in situazioni persino complesse (infernali), senza mai disperare in Chi, per amore, ci stringerebbe a Sé per sempre (Silvano del Monte Athos),

Se, dunque, la ragione per la quale le vergini della parabola, che, non avendo con sé l’olio per le lampade trovano la porta della sala di nozze sbarrata, è una presuntosa ignoranza (Mt 25,1-13), si comprende meglio l’altro racconto contenuto nella risposta di Gesù: “quando il padrone di casa si alzerà (si desterà) e chiuderà la porta, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: ‘Signore, Signore, aprici’. Ma egli vi risponderà: 'Non vi conosco, non so di dove siete’”. Per un verso, c’è un’allusione esplicita al risveglio che proprio la Sua resurrezione ha comportato dopo il sonno della Sua morte; per un altro, la ripresa della metafora della porta, applicata proprio alla Sua stessa morte e risurrezione finisce per costituire il termine invalicabile, oltre il quale non può più essere cercata alcun’altra forma di salvezza. Prescindere presuntuosamente da ciò che Lui è stato e ha fatto per amore nostro, con la Sua morte e risurrezione, significa autoescludersi dall’amore e dalla salvezza che Dio stesso, in Gesù, ha inteso donare a tutti gli uomini.
Così l’inferno è fatto da tutti coloro che, avendo rifiutato le conseguenze del estremo gesto d’amore di Gesù, ora stanno “fuori” dalla porta: “Allora comincerete a dire: Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze. Ma egli dichiarerà: Vi dico che non so di dove siete. Allontanatevi da me voi tutti operatori d’iniquità! Là ci sarà pianto e stridore di denti quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio e voi cacciati fuori”. Anche Paolo, del resto, aveva notato le conseguenze negative che una superficiale partecipazione al banchetto eucaristico comporta inevitabilmente: “chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (I Cor 11,27).

Così, alla metafora della porta da attraversare e alla parabola della porta chiusa segue infine l’immagine di una porta totalmente spalancata: “Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio”. Il fatto è che se la salvezza è offerta a tutti, non tutti l’accolgono. Per questo Gesù conclude dicendo: “Ed ecco, ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno i primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi”. Non è un gioco di parole. Nella lotta per entrare singolarmente e liberamente attraverso la porta del Regno, il primo della fila diventa l’ultimo e l’ultimo il primo. Infatti, chi è già esistenzialmente ultimo diviene primo perché proprio questa è stata la condizione voluta da Gesù, “il quale essendo ricco si è fatto povero per voi” (2 Cor 8,9; ma anche Fil 2,6); mentre chi ha preteso d’essere primo, o mai si dovesse trovare ad esserlo, imparerà a stare all’ultimo posto, come Gesù che “non è venuto per essere servito ma per servire e per dare la sua vita come prezzo di riscatto per molti” (Mt 20,28).

Che il Suo gesto eucaristico continui a insegnarci la bellezza e la grandezza dell’umiltà e il Suo sguardo misericordioso ci custodisca nella pace.


don Walter Magni