Assisi, Crocifisso di San Damiano (particolare)
Mentre Francesco passava vicino alla chiesa di San Damiano, fu ispirato a entrarvi. Andatoci prese a fare orazione fervidamente davanti all’immagine del Crocifisso, che gli parlò con commovente bontà: «Francesco, non vedi che la mia casa sta crollando? Va’ dunque e restauramela». Tremante e stupefatto, il giovane rispose: «Lo farò volentieri, Signore». Egli aveva però frainteso: pensava si trattasse di quella chiesa che, per la sua antichità, minacciava prossima rovina. Per quelle parole del Cristo egli si fece immensamente lieto e raggiante; sentì nell’anima ch’era stato veramente il Crocifisso a rivolgergli il messaggio (Fonti Francescane, 1411). Ecco la preghiera di Francesco davanti al Crocifisso: “Altissimo, glorioso Dio,illumina le tenebre de lo core mio. E damme fede dritta, speranza certa e caritade perfetta, senno e cognoscemento, Signore, che faccia lo tuo santo e verace comandamento. Amen”.
Giovanni 10,22-30: [22]Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d'inverno. [23]Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone. [24]Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». [25]Gesù rispose loro: «Ve l'ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; [26]ma voi non credete, perché non siete mie pecore. [27]Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. [28]Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. [29]Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. [30]Io e il Padre siamo una cosa sola».
Cari amici e care amiche,
domenica prossima (21 ottobre 2007) ricorre, secondo il Rito Ambrosiano, la Festa della Dedicazione della Chiesa Cattedrale. Proprio come “ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione” del Tempio, per stare al brano evangelico proposto in occasione di questa festività liturgica (Gv 10,22-30). Addirittura l’Evangelista Giovanni nota che “era d’inverno”. Questa festa faceva memoria della riconsacrazione del Tempio che era stato profanato, come ricorda il I Libro dei Maccabei (4,36). Era come se il Signore, dopo che il Suo popolo era stato esiliato, volesse tornare ad avere una casa in mezzo al Suo popolo.
Proprio questo introduce una prima domanda: ma dove abita Dio? Ad esempio: stando al vecchio catechismo la risposta risulta già chiara: “Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo: egli è l’immenso”. Come dire che se Dio è ‘immenso’, allora non è circoscritto in un luogo preciso, ma la Sua presenza si dilata al punto da riuscire ad abbracciare ogni realtà creata.
Se tutto questo dice un aspetto vero della realtà di Dio (o del divino in genere), tuttavia gli uomini, in forza della loro stessa natura religiosa, hanno sempre cercato di delimitare uno spazio entro il quale collocare la presenza del loro Dio. Non c’è, infatti, una religione che non si esprima spazialmente in un tempio, in una ‘chiesa’. Ecco, dunque, sorgere edifici sacri maestosi, con cupole eleganti e campanili o minareti che mirano al cielo. Se, per un verso, è importante affermare che Dio è dappertutto, per un altro è pure comprensibile l’esigenza di circoscriverLo in uno spazio sacro, più ristretto e raccolto. Dove la Sua presenza diventi più intensa, quasi più accessibile e riconoscibile.
Questa esigenza, che del resto il Signore comprende benissimo perché caratterizza il nostro modo di sentire e di pensare Dio, può però risultare non solo restrittiva nei Suoi confronti, ma anche pericolosa su un fronte propriamente umano e sociale. Per un verso, non è mai mancato il rischio di costringere Dio dentro degli schemi ideologici e funzionali, sin quasi a imprigionare e costringere Dio a obbedire a qualche nostro capriccio. TrasformandoLo in un idolo del quale disporre a nostro uso e consumo.
In questo modo il ‘mio Dio’ non è più il Dio dell’altro, così come la ‘mia chiesa’ non è quella di un altro o degli altri. Così sono nati e si sono sviluppati certi fanatismi religiosi, tutti i cosiddetti fondamentalismi religiosi e le stesse guerre di religione, combattute in nome di un Dio che, requisito dagli uni, non poteva certo essere a disposizione degli altri.
Ma Dio non accetterà mai d’essere privato della libertà d’essere Se stesso. In questo modo, tutte le volte che i teologi di tutte le religioni hanno tentato di costringere il mistero di Dio in formule troppo rigide e sicure, Dio stesso Si sottrae alle loro cattedre e alle loro facoltà. Così come – per stare a un discorso più circoscritto e cristiano – tutte le volte che una confessione cristiana ha preteso di ergersi con autoritarismo ideologico ad affermare, assolutizzandolo, qualche aspetto della fede, inevitabilmente il Dio che ci ha rivelato Gesù Si sente a disagio e fatica ad essere percepito e annunciato.
Infatti: è Dio che ha il diritto di decidere e propriamente decide dove abitare. E, dunque, di stabilire come e dove deve essere concretamente la Sua casa. Ma allora: come Dio prende casa tra gli uomini? Dove propriamente Si lascia individuare e raggiungere? Insomma: dove abita il Dio di Gesù?
Intanto sarebbe interessante riandare a un episodio del Secondo Libro di Samuele, nel quale il re Davide manifesta al profeta Natan il desiderio di voler costruire al Signore una casa. Ma il Signore, quella stessa notte dice a Natan: “Va’ e riferisci al mio servo Davide: Dice il Signore: Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Ma io non ho abitato in una casa da quando ho fatto uscire gli Israeliti dall’Egitto fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda, in un padiglione. Finché ho camminato, ora qua, ora là, in mezzo a tutti gli Israeliti, ho forse mai detto ad alcuno dei Giudici, a cui avevo comandato di pascere il mio popolo Israele: Perché non mi edificate una casa di cedro?” (7,6-7). Come dire che non è Davide o non siamo noi che possiamo costruire una casa al Signore, ma è piuttosto Lui che vorrebbe costruire una casa a noi. Anzi una casa per restare in mezzo a noi.
Certo il passaggio è delicato, ma estremamente importante e decisivo: la casa, la dimora che Dio ha voluto da sempre costruire e stabilire in mezzo a noi e per noi ha un nome preciso e inequivocabile per i cristiani: si chiama Gesù.
Qui sarebbe interessante riprendere alcune espressioni del Vangelo di Giovanni – al quale, del resto, appartiene anche il brano evangelico proposto per domenica prossima –, che in alcuni passaggi ama intrecciare la realtà di Dio con l’immagine dell’abitare, dell’inabitare. Passaggi nei quali Gesù, con accenti affettuosi indicibili, parla propriamente del fatto che il Padre abita in Lui e Lui nel Padre: “Non credi tu che io sono nel Padre e che il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico di mio; ma il Padre che dimora in me, fa le opere sue” (Gv 14,10); e ancora: “Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,11).
Forse questo mio scritto vi risulterà una introduzione un po’ lontana dal brano evangelico che la liturgia della Dedicazione della Chiesa Cattedrale ci proporrà di ascoltare domenica prossima. Non è così. Rileggendolo non sarà difficile cogliere dei passaggi e delle espressioni che, riascoltate in questa prospettiva diventano più chiare ed evidenti. Da una parte, ci sono i farisei che, stando nel ‘loro’ Tempio aggrediscono Gesù con le loro domande: “Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: ‘Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente’”; dall’altra, sta Gesù che – proprio identificandoSi con il Tempio, in quanto è anzitutto la casa di Suo Padre, risponde loro con molta franchezza: “Ve l’ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete mie pecore”.
Cosa, dunque, è decisivo e importante in questa situazione per certi aspetti così dialettica, fatta di incomprensione e di sospetto tra i farisei e Gesù? Essere Sue pecore, essere docili a Lui, stare semplicemente e tenacemente dalla Sua parte, sentendosi umilmente pecore del Suo gregge: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola”.
Questo è anche il senso profondo e ultimo della nostra appartenenza ecclesiale. Questo è, soprattutto, il senso, il motivo per il quale di domenica in domenica ci raduniamo in una chiesa per celebrare l’Eucaristia di Gesù. Lui che “non ha una pietra dove posare il capo” (Mt 8,20 e Lc 9,58) ci insegni a saper stare, a saper abitare là dove qualcuno soffre, là dove qualcuno spera o, forse deluso, non sa più in chi e come sperare ancora. Infatti, “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Io non son venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori” (Mc 2,17). Gesù, inviato dal Padre, abita là dove c’è un uomo da ascoltare, da amare. Qualsiasi uomo, che l’attenda o no.
Questo ci riempi di una grande speranza. Questo ci regala una immensa gioia. Non è forse così? Buona domenica a tutti.
don Walter Magni
Giovanni 10,22-30: [22]Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d'inverno. [23]Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone. [24]Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». [25]Gesù rispose loro: «Ve l'ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; [26]ma voi non credete, perché non siete mie pecore. [27]Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. [28]Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. [29]Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. [30]Io e il Padre siamo una cosa sola».
Cari amici e care amiche,
domenica prossima (21 ottobre 2007) ricorre, secondo il Rito Ambrosiano, la Festa della Dedicazione della Chiesa Cattedrale. Proprio come “ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione” del Tempio, per stare al brano evangelico proposto in occasione di questa festività liturgica (Gv 10,22-30). Addirittura l’Evangelista Giovanni nota che “era d’inverno”. Questa festa faceva memoria della riconsacrazione del Tempio che era stato profanato, come ricorda il I Libro dei Maccabei (4,36). Era come se il Signore, dopo che il Suo popolo era stato esiliato, volesse tornare ad avere una casa in mezzo al Suo popolo.
Proprio questo introduce una prima domanda: ma dove abita Dio? Ad esempio: stando al vecchio catechismo la risposta risulta già chiara: “Dio è in cielo, in terra e in ogni luogo: egli è l’immenso”. Come dire che se Dio è ‘immenso’, allora non è circoscritto in un luogo preciso, ma la Sua presenza si dilata al punto da riuscire ad abbracciare ogni realtà creata.
Se tutto questo dice un aspetto vero della realtà di Dio (o del divino in genere), tuttavia gli uomini, in forza della loro stessa natura religiosa, hanno sempre cercato di delimitare uno spazio entro il quale collocare la presenza del loro Dio. Non c’è, infatti, una religione che non si esprima spazialmente in un tempio, in una ‘chiesa’. Ecco, dunque, sorgere edifici sacri maestosi, con cupole eleganti e campanili o minareti che mirano al cielo. Se, per un verso, è importante affermare che Dio è dappertutto, per un altro è pure comprensibile l’esigenza di circoscriverLo in uno spazio sacro, più ristretto e raccolto. Dove la Sua presenza diventi più intensa, quasi più accessibile e riconoscibile.
Questa esigenza, che del resto il Signore comprende benissimo perché caratterizza il nostro modo di sentire e di pensare Dio, può però risultare non solo restrittiva nei Suoi confronti, ma anche pericolosa su un fronte propriamente umano e sociale. Per un verso, non è mai mancato il rischio di costringere Dio dentro degli schemi ideologici e funzionali, sin quasi a imprigionare e costringere Dio a obbedire a qualche nostro capriccio. TrasformandoLo in un idolo del quale disporre a nostro uso e consumo.
In questo modo il ‘mio Dio’ non è più il Dio dell’altro, così come la ‘mia chiesa’ non è quella di un altro o degli altri. Così sono nati e si sono sviluppati certi fanatismi religiosi, tutti i cosiddetti fondamentalismi religiosi e le stesse guerre di religione, combattute in nome di un Dio che, requisito dagli uni, non poteva certo essere a disposizione degli altri.
Ma Dio non accetterà mai d’essere privato della libertà d’essere Se stesso. In questo modo, tutte le volte che i teologi di tutte le religioni hanno tentato di costringere il mistero di Dio in formule troppo rigide e sicure, Dio stesso Si sottrae alle loro cattedre e alle loro facoltà. Così come – per stare a un discorso più circoscritto e cristiano – tutte le volte che una confessione cristiana ha preteso di ergersi con autoritarismo ideologico ad affermare, assolutizzandolo, qualche aspetto della fede, inevitabilmente il Dio che ci ha rivelato Gesù Si sente a disagio e fatica ad essere percepito e annunciato.
Infatti: è Dio che ha il diritto di decidere e propriamente decide dove abitare. E, dunque, di stabilire come e dove deve essere concretamente la Sua casa. Ma allora: come Dio prende casa tra gli uomini? Dove propriamente Si lascia individuare e raggiungere? Insomma: dove abita il Dio di Gesù?
Intanto sarebbe interessante riandare a un episodio del Secondo Libro di Samuele, nel quale il re Davide manifesta al profeta Natan il desiderio di voler costruire al Signore una casa. Ma il Signore, quella stessa notte dice a Natan: “Va’ e riferisci al mio servo Davide: Dice il Signore: Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Ma io non ho abitato in una casa da quando ho fatto uscire gli Israeliti dall’Egitto fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda, in un padiglione. Finché ho camminato, ora qua, ora là, in mezzo a tutti gli Israeliti, ho forse mai detto ad alcuno dei Giudici, a cui avevo comandato di pascere il mio popolo Israele: Perché non mi edificate una casa di cedro?” (7,6-7). Come dire che non è Davide o non siamo noi che possiamo costruire una casa al Signore, ma è piuttosto Lui che vorrebbe costruire una casa a noi. Anzi una casa per restare in mezzo a noi.
Certo il passaggio è delicato, ma estremamente importante e decisivo: la casa, la dimora che Dio ha voluto da sempre costruire e stabilire in mezzo a noi e per noi ha un nome preciso e inequivocabile per i cristiani: si chiama Gesù.
Qui sarebbe interessante riprendere alcune espressioni del Vangelo di Giovanni – al quale, del resto, appartiene anche il brano evangelico proposto per domenica prossima –, che in alcuni passaggi ama intrecciare la realtà di Dio con l’immagine dell’abitare, dell’inabitare. Passaggi nei quali Gesù, con accenti affettuosi indicibili, parla propriamente del fatto che il Padre abita in Lui e Lui nel Padre: “Non credi tu che io sono nel Padre e che il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico di mio; ma il Padre che dimora in me, fa le opere sue” (Gv 14,10); e ancora: “Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me” (Gv 14,11).
Forse questo mio scritto vi risulterà una introduzione un po’ lontana dal brano evangelico che la liturgia della Dedicazione della Chiesa Cattedrale ci proporrà di ascoltare domenica prossima. Non è così. Rileggendolo non sarà difficile cogliere dei passaggi e delle espressioni che, riascoltate in questa prospettiva diventano più chiare ed evidenti. Da una parte, ci sono i farisei che, stando nel ‘loro’ Tempio aggrediscono Gesù con le loro domande: “Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: ‘Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente’”; dall’altra, sta Gesù che – proprio identificandoSi con il Tempio, in quanto è anzitutto la casa di Suo Padre, risponde loro con molta franchezza: “Ve l’ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete mie pecore”.
Cosa, dunque, è decisivo e importante in questa situazione per certi aspetti così dialettica, fatta di incomprensione e di sospetto tra i farisei e Gesù? Essere Sue pecore, essere docili a Lui, stare semplicemente e tenacemente dalla Sua parte, sentendosi umilmente pecore del Suo gregge: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola”.
Questo è anche il senso profondo e ultimo della nostra appartenenza ecclesiale. Questo è, soprattutto, il senso, il motivo per il quale di domenica in domenica ci raduniamo in una chiesa per celebrare l’Eucaristia di Gesù. Lui che “non ha una pietra dove posare il capo” (Mt 8,20 e Lc 9,58) ci insegni a saper stare, a saper abitare là dove qualcuno soffre, là dove qualcuno spera o, forse deluso, non sa più in chi e come sperare ancora. Infatti, “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Io non son venuto a chiamare dei giusti, ma dei peccatori” (Mc 2,17). Gesù, inviato dal Padre, abita là dove c’è un uomo da ascoltare, da amare. Qualsiasi uomo, che l’attenda o no.
Questo ci riempi di una grande speranza. Questo ci regala una immensa gioia. Non è forse così? Buona domenica a tutti.
don Walter Magni
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