“Io e il padre siamo uno” (Gv 10,30) – Duccio da Buoninsegna, l’ultima cena (1308-11, Museo dell'Opera del Duomo, Siena)
Giovanni 10,27-30: [27]Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. [28]Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. [29]Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. [30]Io e il Padre siamo una cosa sola.
Cari amici e care amiche,
domenica prossima (IV di Pasqua, 29 aprile 2007) è detta, nella tradizione liturgica: “domenica del Buon Pastore”. Se pure questa immagine non compare nel brano evangelico che sarà letto (Gv 10.27-30), tuttavia è Gesù stesso che dice: “Io sono il buon pastore, il buon pastore dà la sua vita per le pecore” (10,11) e ancora: “Io sono il buon pastore, e conosco le mie pecore, e le mie pecore conoscono me” (10,14). Non certo per apparire più accattivante, ma per mettere in evidenza in quale relazione Lui stesso Si trova con le Sue pecore. Perché dà la vita per loro (Gv 10,11) e, conoscendole bene, a loro volta esse Lo conoscono e così Lo seguono (Gv 10,14).
In questo senso, rispondendo alla domanda che ci accompagna in queste domeniche di Pasqua – come Gesù risorto si manifesta ai Suoi discepoli? –, la risposta è più diretta: Gesù desidera soprattutto restare per sempre in relazione con i Suoi discepoli, che profondamente ama.
Ma questa relazione ha una radice precisa, descritta nell’ultimo versetto del brano proposto: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Infatti, non si comprende nulla di Gesù – delle Sue relazioni, di ciò che ha detto e fatto –, se non ci si addentra nella relazione col Padre Suo. Perché Gesù viene dal Padre, essendo stato concepito da Lui come Figlio; avendo trovato nel Padre, lungo tutta la Sua esistenza, un sostegno e un senso; sino a poter ritornare a Lui, dopo la Sua morte, come definitivamente risorto e vivo.
Anche il dibattito sull’importanza della Sua vicenda esistenziale (la cosiddetta questione del ‘Gesù storico’, affrontata nel recente libro di Benedetto XVI, ‘Gesù di Nazaret’, che “considera Gesù a partire dalla sua comunione con il Padre”, Rizzoli 2007, p. 10), non si comprende che alla luce di questa imprescindibile relazione col Padre. Non una relazione di convergenza reciproca, ma costituita in un rapporto che Li unisce da sempre e per sempre. “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30) è così la ripresa sintetica dell’inizio del Prologo: “nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio” (Gv 1,1).
Anzi, continuando a leggere a ritroso questi versetti, si afferma che il Padre è la ragione stessa della relazione tra Gesù e le Sue pecore: “Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio” (Gv 10,29). Non è tanto Gesù che Si è cercato le pecore, ma queste Gli sono state procurate dal Padre. E’ il Padre “che me le ha date”, e, in quanto “è più grande di tutti”, allora nessuno potrà mai “rapirle dalla mano del Padre mio”.
E non solo la relazione tra Gesù e le Sue pecore è ricondotta nelle mani del Padre, ma la solidità e la tenuta del loro rapporto, dipende ancora da Lui. Lo stesso profondo desiderio di Gesù risorto di stare con i Suoi scaturisce proprio dall’esuberanza d’amore dal cuore del Padre Suo. Sono decisivi, in questo senso, i capitoli 13-17 di Giovanni, dove, ad un tempo, l’intimità tra Gesù e il Padre, fa da sfondo e s’ intreccia con quella tra Gesù e i Suoi discepoli.
Ma poi, in quali termini storici si caratterizza il rapporto con le Sue pecore? Continuando questa lettura a ritroso, si comprende sia ciò che permette a Gesù di stabilire con loro un tale rapporto e quali conseguenze possono derivarne. Perchè “se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l'amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui” (Gv 14,23).
Anzi, il motivo esistenziale per il quale Gesù Si relazione ai Suoi lo descrive Gesù in questi termini: “Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano” (Gv 10,28). Infatti, avendo dato la vita – quella stessa “vita eterna” che deriva a Lui dal Padre – per le Sue pecore, esse “non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano”. Così Gesù spiega la vera ragione della Sua morte cruenta: solo per amore dei Suoi. Questo diventa principio di inscindibile unità tra Gesù e loro, tanto che nessuno potrà mai disperderle o rapirle. Così, la ragione teologica della Sua morte risulterà ad un tempo storica e paradossale. Proprio come qualsiasi autentica forma di amore non smentisce, ma semplicemente conferma. Infatti: “nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici” (Gv 15,13).
Si comprende pertanto la ‘conclusione’, collocata in questo senso al principio del brano: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono” (Gv 10,27). Perché, dunque, noi ascoltiamo proprio la Sua voce? In quanto parte di una relazione che precede ogni desiderio nostro di andare a Lui al fine di restare con Lui. Il fatto, cioè, che, essendo già nelle mani del Padre Suo (Gv 10,29), Lui ci conosce e noi, dunque, Lo riconosciamo a nostra volta.
Cari amici e care amiche, di domenica in domenica, celebrando la Sua Pasqua nell’eucaristia, non facciamo che addentrarci più intimamente nelle pieghe di quello stesso amore che da sempre sussiste tra il Padre e il Suo Figlio Gesù. Lui, che ripresentandoSi nell’eucaristia altro non desidera che continuare a restare con noi. Così come anche noi ci lasciamo educare a non desiderare altro che Lui. Solo Lui. Buona domenica.
don Walter Magni